Località Cerza Grossa
Tel. 0825.986666, fax 0825.986230 www.feudi.it
Chiuso domenica sera,lunedì e martedì
Ferie a gennaio e in agosto
In questi due anni siamo stati innumerevoli volte a Marennà, fatto ancora più innumerevoli verifiche indirette, ormai decisive nella formazione del nostro giudizio finale verso un ristorante, e dobbiamo riportarvi due conferme: la prima, pratica, è la costante ascesa della cucina di questo locale della cantina dei Feudi con lo chef naturalmente maturato verso una interpretazione più radicata nel rapporto tra i prodotti e il territorio anzichè sulla capacità dei sapori di combinarsi astrattamente fra loro. La seconda, ideologica, è ribadire, nonostante una sorta di ripulsa di certa critica verso quello che noi italiani riteniamo gigantismo aziendale ma che tale non è se abbiamo come unità di misura il mondo, la funzione decisiva delle cantine di maggiori dimensioni per lo sviluppo e l’affermazione di una zona vitivinicola.
Ad esempio per la prima volta in questa estate 2008 Feudi è stata aperta in agosto, un mese che in Irpinia è l’equivalente di gennaio per la costa, ossia di chiusura totale e di deserto antropologico con grandi risultati: oltre 800 visitatori nella settimana di Ferragosto hanno dimostrato che alla crisi economica si risponde con i servizi, la professionalità, il giusto rapporto tra qualità e prezzo. Si ha un bel parlare di turismo nelle zone internte, ma se i viticoltori vanno in vacanza proprio quando la gente gira di più, come si pensa di fare numeri? Questo però è un altro discorso, torniamo in sala dove il servizio continua a non fare una piega, l’entusiasmo e la competenza della brigata di cucina e del personale tutto sono rimasti inalterati, direi anzi rafforzati dal buon proseguimento dell’impresa che fanno di Marennà uno dei punti dell’eccellenza gastronomica nel Sud e quindi in Italia. In questi due anni è cresciuto anzitutto il rapporto tra la struttura e la regione, con clienti che vengono da Avellino, Salerno e Napoli e contribuiscono a tenere tonica l’atmosfera della sala trasformando così un posizionamento da laboratorio del gusto che pure inizialmente si respirava ad quello di locale vissuto e soprattutto, ormai storicizzato. Ma veniamo allo stile, ché parlavamo della maturità dello chef, cresciuto alla Pergola dell’Hilton. In questo periodo, anche attraverso continui scambi di esperienza, Paolo è entrato nell’humus culturale gastronomico dell’alta cucina campana, riassumibile in uno stile che tende semplicemente a far esprimere la natura dei prodotti attraverso la rivisitazione estetica della tradizione, supportati ovviamente da tecniche di cottura professionali entrate nell’uso comune come quella, ad esempi, del sotto vuoto. Il risultato sono ricette che non hanno più l’esigenza di stupire a tutti i costi ma di piacere, essere epressive e soprattutto memorizzabili perché c’è un modo molto facile per capire se avete mangiato bene: non quello, luogo comune, di come avete passato la notte, quanto quello, piuttosto, di cosa ricordate il giorno dopo, due giorni dopo, un mese dopo. Se nel vostro vissuto resta mnemonico papilloso resta anche un solo piatto di una cena o di un pranzo, allora vuol dire che siete in un posto dove non si assembla ma si cucina. Il cibo, come il vino, è infatti anzitutto un bene di consumo mentale, poi, magari, anche fisivo. Ecco, ad esempio nell’ultima visita io ricordo molto bene la passata di lenticchie rosse, piccolo capolavoro dove il gioco è poi nella combinazione con fiori ed erbe del giardino botanico della Feudi, e la semplice carbonara di baccalà, assolutamente centrata, un piatto a mezza strada tra l’Irpinia e il Vesuvio. Sono due ricettine molto semplici che vi consiglio di provare quando siete qui.
Naturalmente la carta gira in continuazione, sulle carni il nostro Paolo esprime classicità artusiana, sul pesce si diverte rispettando la materia prima in maniera assoluta secondo il procollo dell’Italia meridionale senza cedere a inguacchi. La pasticceria merita una visita a parte, dal sougfflé di ricotta di bufala all’anice stellato, alle variazioni di pesca su babà, millefoglie e sorbetto, dalla pina colda al croccante di mandorle. Marennà riserva sempre buone sorprese con i formaggi, sempre frutto di una ricerca sul territorio, nei pre e post dessert. Ma adesso veniamo ai costi: il menu degustazione di cinque portate è sui 45 euro (senza vino), alla carta antipasti, primi e dolci sono a 10 euro, secondi a 18. Una cena completa con i vini arriva dunque sui 60/65 euro, la cena normale alla carta di due piatti, benevenuto e vino (anche al bicchiere) sui 45.
Visita del 19 ottobre 2006. Ci sono due tipi di locali, quelli segnati da una presenza forte ed esuberante, può essere lo chef come il patròn, e quelli invece capaci di imporre comunque uno stile, un’atmosfera inconfondibile di cui resta traccia nella memoria. Come qui, dove eravamo stati quando cucinava Donato Episcopo e siamo tornati poco tempo fa, con Paolo Barrale ai fornelli. Entrambe le volte positive perchè abbiamo ritrovato alcune cose capaci di conquistarci sempre: la prima è l’incredibile entusiasmo coniugato alla competenza dei giovani impegnati nella struttura, dall’accoglienza professionale e appassionata quando si varca la porta a quella del cacciatore di podolici in Alta Irpinia che passa la mattina inseguendo i riluttanti pastori e la sera nell’atmosfera sofisticata del ristorante.
Dall’apprendista stregone in cucina al sommelier di sala, ovunque, insomma, sprigiona una forte motivazione professionale, quel vitalismo perso in altre parti d’Italia dove fa capolino stanchezza e ripetitività. La seconda caratteristica capace di conquistarci è la struttura che mi ha ricordato l’effetto piramidi del Louvre, ritrovato a Paestum nel museo della civiltà contadina di Vannulo costruito in puro acciaio: l’azienda è moderna, lo stile minimalista, interno nero come le etichette delle bottiglie, non rassicura e accoglie ma stimola il cervello all’attenzione su quel che accade intorno, il visitatore è spiazzato, così come succede in tutte le nuove aziende vitivnicole in Cile o negli States. Nessun ammiccamento al folklore e neanche il finto rustico in cui i toscani sono maestri. C’è una biblioteca dove leggiucchiare e prendere un aperitivo aspettando i ritardatari mentre la sala da pranzo è una affacciata sulle vigne, all’ingresso la vetrina di formaggi e salumi per stuzziccare ancora. Terzo elemento molto positivo è costituito dalla piena integrazione tra la terrazza ristorante e il resto dell’azienda, abbiamo mangiato mentre era in corso la vendemmia, volendo si può chiedere di cenare tra le botti a dieci metri sotto il suolo. Marennà, fare merenda in italiano, è sicuramente la massima espressione del miracolo di una terra lacerata dal terremoto del 1980 e spesso frenata dalla paura di volare, citiamo Erica Jong, la sublimazione dell’eccellenza dei vigneti delle tre docg. Incredibile da vedere per chi, come me, ha l’età per ricordare perfettamente la distruzione e il senso di abbandono oltre che di fuga di appena 26 anni fa: se l’Irpinia, come la Campania, avesse avuto un gruppo dirigente capace di credere veramente nell’agricoltura, oggi la musica sarebbe ancora più bella da ascoltare. Il locale sta avendo molto successo perché crea queste emozioni e, al tempo stesso, regala nel piatto i sapori tradizionali appena appena rivisitati nella presentazione e arricchita da una maniaca ricerca sui prodotti di uno dei migliori allievi di Heinz Beck: così parliamo dei fagioli su spinaci, spaghetti di Gragnano con asparagi selvatici e coniglio, paccheri al ragù di agnello, tortino su ragù di mandarini. La sostanza del progetto è un compasso piantato nella cucina di Paolo con un cerchio che comprende il meglio della Campania, una sorta di antologia in cui rientrano colatura di alici e agnello laticauda tanto per citare due prodotti a me molto, ma davvero molto, cari. Marennà insomma è una esperienza, soddisfa bene l’intelletto ma anche i palati più facili grazie alla immediata riconoscibilità dei sapori per cui chi è napoletano immediatamente si riconosce. Da applauso la selezione di salumi e formaggi, sempre rara da Firenze in giù.
La lista dei vini è aziendale, una scelta non discutibile in questi locali, vedi ad esempio Castello Banfi a Montalcino dove c’è un altro allievo di Heinz, Guido Haverlock o a Poggio Antico. Marennà mette tutti a Napoli e quasi tutti a Roma, ma spicca il volo quando arriva il conto, difficilmente superiore ai 50 euro. Ma non vogliamo chiudere con la tasca, bensì con il naso, in continuo esercizio nell’erbario con cui è coperta gran parte della cantina o nel roseto con decine di diversi tipi di rose. Rubatene una, chi le ruba ancora per regalarle a una donna? Questo sano istinto vi verrà dopo aver mangiato qui.
Come arrivare
Uscire ad Avellino est, imboccare la direzione per Laceno-Calitri e uscite a Sorbo Serpico. L’azienda è appena fuori dal paese.
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