Uno spaccato della crisi del giornalismo, non solo gastronomico
Facebook mi ha messo sotto gli occhi questo post che segue scritto dalla collega Sonia Gioia, una bella penna (ve ne accorgerete leggendola qui sotto) con la giusta padronanza dell’italiano. Le ho chiesto il permesso di amplificare il post qui perché è una testimonianza eccezionale e resto convinto che scrivere sui social, lavorando per Zuckerberg&C, è un po’ come dire “Ho scritto t’amo sulla sabbia” (cit). Il giorno dopo non resta nulla, il nuovo Medioevo, ossia la conoscenza affidata alla mera esperienza personale quotidiana non trasmessa e non studiata. Qui almeno navigherà per sempre in rete.
Sonia entra nel merito di una tragedia plurigenerazionale, parte da un sogno condiviso da tutti quelli che hanno avviato questo mestiere con una differenza rispetto a noi più anziani. In passato, parlo della mia fascia generazionale, arrivare a scrivere anche una breve in una pagina di cronaca era il segnale che saresti stato assunto e ben pagato per tutto il resto della tua carriera. Da qualche tempo puoi scrivere in prima pagina e restare precario a vita, pagato fra i 20 e i 50 euro lordi a pezzo. E questo proprio quando sarebbe necessaria una maggiore artigianalità per dare senso a questo lavoro assediato dai social e adesso dalla intelligenza artificiale.
Sonia descrive benissimo il suo stato d’animo: un ego soddisfatto e le tasche sempre più vuote perché gli editori la prima cosa che fanno è tagliare i soldi ai collaboratori. Poi la consapevolezza, terribile, di non raccontare più nulla se non il nulla.
Abbiamo assistito a un fenomeno incredibile: gli editori hanno scaricato sui ristoratori il costo del lavoro. Per cui abbiamo un circolo vizioso di giornalisti che fanno al tempo stesso comunicazione aziendale e informazione per tirare a campare. Sonia ha subito scelto di non seguire questa strada puntando sul giornalismo puro. All’inizio tutto sembra bellissimo, entri in ambienti ai quali mai avresti potuto avere accesso, sei riverito, allisciato, il tuo ego ti fa coricare tranquillo, sicuro di un brillante e ricco avvenire. Poi gli anni passano, la tua gioventù viene divorata da un lavoro sottopagato e arrivi a un momento in cui capisci che non potrai avere una vita normale con questi soldi e che non potrai mai recuperare il tempo perduto.
E’ una crisi sistemica, non più un comportamento deviato come pure certi moralisti da social denunciano ogni tanto prendendo like da un popolino di puri che invoca la ghigliottina.
La crisi dell’alta cucina ha come conseguenza la crisi della critica e del giornalismo gastronomico, e viceversa, per cui non ci stai più sulle spese.
Una crisi in cui, al momento, è difficile trovare una soluzione.
Un talento come quello di Sonia Gioia che decide di abbandonare il campo è una perdita per tutti. La sua non è una sconfitta, è una coraggiosa presa d’atto.
di Sonia Gioia
È giunto il momento di fare outing.
Nel diario che tengo per mio figlio, quando sarà grande, stamattina ho scritto: [Quando sarai finalmente in grado di rispondere alla domanda “cosa fa la tua mamma”, non dirai “la giornalista”, ma “mia madre è una donna di cani”, spero].
Il transito da una vita all’altra è stato doloroso, lento, carico di ansie, di paure, di notti insonni durate mesi, di paura di sbagliare. Riesco a scriverne solo adesso perché la gestazione è giunta abbondantemente al termine e non ho più il peso della vergogna sul cuore. Ho provato anche quella, cocente, la vergogna del fallimento che è il peccato capitale di questi tempi in cui essere performante è tutto quello che la società ti chiede di essere.
Io, non lo ero più. Scrivevo a vuoto. Di cuochi, cucine, piatti, di un mondo scintillante che credo non mi sia mai appartenuto fino in fondo, per cui cercavo di osservarlo e raccontarlo da uno sguardo laterale, diverso, il mio. Ho avuto il privilegio di scrivere per le più belle e prestigiose testate di settore. Il mio ego era sazio come un otre. Il mio spirito no. Le mie tasche nemmeno.
Nel frattempo sono diventata madre. Un amico fraterno, Uccio Biondi, mi ha scritto: il coraggio di essere Sonia era lì, dietro l’angolo di una culla.
È cambiato tutto, ma non di colpo. È stato uno stillicidio.
I compensi dimezzati, ridotti a un quarto, poi al lumicino, come va capitando alla sventurata categoria dei giornalisti che dovrebbero essere detentori di una quota parte essenziale della democrazia. Svenduta come il lavoro più bello del mondo, di cui non nego, avrò nostalgia finché avrò respiro. Non ci stavo più dentro. Sottraevo giornate di lavoro alla cura di mio figlio per pochi spiccioli. Mi sentivo stritolata in dinamiche di compromesso, potere e riverenza alle quali non sono mai riuscita ad adattarmi. Fino a che non ho deciso che era ora di dire basta.
Avevo ormai definitivamente smarrito ogni senso.
È stata la fine di un nuovo inizio. Grazie alla mia famiglia, a mio marito che mi ha sorretto con entrambe le mani e tutta la fede, l’amore di cui è capace, mi sono presa il tempo di capire da dove ricominciare. Avevo lo sguardo basso, come chi non si sente più all’altezza, ed è stato così che ho incrociato lo sguardo dei miei cani, il luogo dove mi sentivo più a casa che in qualsiasi altro posto. Grazie all’immagine incrociata per caso di un cagnetto ridotto all’ombra di se stesso dalla malattia, ho cominciato a frequentare il canile. Ancora oggi mi dico che è stata una cazzata. È una di quelle soglie senza ritorno, varcata la quale non puoi più tornare indietro. Un miscuglio micidiale di sofferenza, puzza di piscio e merda, freddo bestiale, caldo infernale, e inenarrabile, incomparabile bellezza. C’è un grande uomo di cani, che sostiene che il canile è casa. Non solo per i cani. Mi ha detto anche che se voglio stare in canile devo cercarmi uno bravo. Non sbagliava di una stilla. Perché l’empatia ti uccide quando immagini proprio proprio fino in fondo cosa si prova a stare reclusi là dentro. Ma anche perché la violenza degli umani fra umani, anche i famosi angeli del volontariato devoti ai canili, è micidiale. Soprattutto perché non te l’aspetti. Ad avvertirmi è stato un maestro pari a nessuno. Si chiama Ivano Vitalini. Ovviamente ho ignorato il suo avvertimento.
Fra le mille possibilità che avevo, non mi ci è voluto molto per capire che era da lì che volevo ricominciare.
Mi sono resa conto presto e bene che per trattare con quelle creature fragili come nessuna, totalmente in balia di scelte che non sono mai, mai le loro, dovevo studiare. Impararne il linguaggio. Mi sono iscritta alla scuola cinofila che ho scelto fra mille, dove mi avrebbero insegnato quella lingua sconosciuta di gesti, di prossemica, cambi di prospettive, soprattutto un metodo fondato esclusivamente e senza cedimenti su un approccio empatico e gentile, per diventare un educatore cinofilo. Nel frattempo ho imparato le regole scritte in nessun manuale per far adottare i cani. Ne ho mandati a casa un po’. Stanno trascorrendo questo inverno al caldo, e non c’è pranzo stellato che mi abbia mai restituito un sentimento così pieno e rotondo della vita, come la consapevolezza del tepore nel quale finalmente vivono.
Certo, lo dico sempre sorridendo, i cani sono come la lirica, o ti piacciono o sono una noia mortale e mortifera. Le stelle gastronomiche fanno assai più share dei cagnacci brutti sporchi e cattivi reclusi in gabbia. Le prime ti illuminano di successo, per un gioco di specchi e riflessioni. Quegli altri, i paria a quattro zampe, proprio no. Ma tutto dipende da quale prospettiva guardi, da quale parte di mondo vuoi stare.
Questo è quanto. Questo è tutto. Anzi no. Di recente ho scritto per Dispaccio, la newsletter di carta di Dispensa, una monografia dedicata a Cibo, cani e felicità. Perchè il cibo con la felicità c’entra sempre. L’idea è della solita Martina Liverani. Ci eravamo incrociate nel magico mondo del giornalismo gastronomico e ci siamo ritrovate sulle rotte di un sentiero sozzo di peli che entrambe battevamo per rotte parallele.
Quel numero di Dispaccio è il punto di intersezione esatto delle mie due ultime vite. Grazie a Martina per averle ricongiunte.
E grazie ai cani per avermi insegnato che c’è sempre un’occasione, un tempo, una possibilità, che da qualche parte in fondo al cuore resta un osso duro di gioia, di forza, di rinascita.
Basta scavare nel punto giusto e tenere il naso acceso per annusare la felicità, quando ti passa davanti.