di Fabrizio Scarpato
“Pignataro dov’è? Non è ancora sceso? Sarà stanco, lo capisco, ma bisogna andare”.
“Arrivo, arrivo: per Pigna, tutto a posto, c’ho qualche decina di chili di ghiaccio e Vizzari ha un fastidioso eritema”. Il concitato colloquio tra Maffi e Grammauta non deponeva favorevolmente, né sul dono dell’ubiquità di Pignataro, tantomeno su cosa potessero servire chili di ghiaccio per una dermatite.
Tali perplessità dovevano affliggere anche Scuteri, soprattutto quando capì, senza proferir parola e aggrappandosi al finestrino, che la casa del Maffi era l’unica abitazione in collina raggiungibile percorrendo una discesa del tutto simile alla parete nord dell’Eiger.
“Ma Pignataro dov’è?” continuava Grammauta, probabilmente giunto a bordo piscina direttamente di corsa per una scorciatoia solo a lui nota, sin da quando portava i calzoni corti e della quale nessuno osava chiedere particolari pena un lungo elenco di nomi, colori e date di nascita di tutti i sassi del misterioso sentiero.
Solerte e partecipe cerco di dare una mano caricandomi sulle spalle come un camallo qualche quintale di ghiaccio, insensibile allo sguardo intenso e malinconico di una cinquantina di gamberi viola di Sanremo che chiedevano pietà cercando di parlare “zeneise”, non sapendo di aver a che fare con uno spezzino dal cuore di pietra.
Un signore con fare divertito e sornione mi guarda sorridendo: non devo fargli buona impressione come ex giovane con un sacco di ghiaccio in una mano e una borsa termica della Esselunga nell’altra. Era Pignataro, che giocava a rimpiattino col Grammauta.
Mi ero persuaso che il ghiaccio servisse per la piscina, unico bacino sufficiente a contenere lo sterminato numero di bottiglie che ciascuno dei partecipanti aveva consegnato nelle mani dell’arbitro unico della serata, il notaio Tumbiolo. Il quale, d’accordo con il Mongiardino, in una sorta di selezione innaturale, armato di una inquietante sciabola affilatissima, decapitava a più non posso inermi bocce di champagne. Dei sinistramente precisi degorgements godevano i cespugli di more sottostanti: non mi stupirei se il Maffi programmasse una raccolta settembrina di frutti di bosco già marinati a base di Philipponnat millesimato.
Uno, due … cinque, sei… cominciava la degustazione alla cieca: gli occhiali di Mongiardino si appannarono, per l’eccitazione, forse, ma più probabilmente perché lui era l’unico a cogliere il grido di dolore in stretto dialetto di Sturla che proveniva dai gamberi ormai sul tavolo della cucina.
Mi vien fatto di proporre una degustazione a “mosca cieca” che prevedeva anche la scelta ignara ed imparziale delle bottiglie, casomai in piscina, ad occhi bendati. Dal gioco era escluso Tumbiolo per via della scimitarra sibilante, ma il ruolo di dea bendata ben si attagliava alle due signore, compagne di Albuz e del Guardiano, anche perché i rispettivi cavalieri erano intenti a ripassare la traballante pronuncia francese e a tessere lodi sperticate, e invero ingenerose verso le consorti, di una certa Madame Leroy, che nel cor ci sta, si sa, macchevelodicoaffà.
Sfarfallii di lieviti, di funghi, di frutta e di terra si sparpagliavano nell’aria al pari dei chiarori lattescenti di una treccia di mozzarella che faceva ignuda mostra di sé tra moscardini, triglie e foglie di salvia mirabilmente fritte.
Due vere “persone”, due personcine a modo e quasi distaccate, osservavano incredule questo spettacolo d’arte varia di mangioni sbrodoloni, che in un francese approssimativo blateravano di nomi altisonanti, dando i numeri in mezzo a un tizio che brandiva una spada, a un altro che faceva fotografie a tutti purché abbracciati ad una bottiglia di nome Basetta, per tacere di un ex giovane sul trampolino (con Basetta) e di un avvocato che cercava Pignataro. Così ci devono aver soppesati i due cani del Maffi divertiti e un tantino smarriti, nella loro devastante amorevole e incantevole indifferenza, salvo poi rivelarsi in tutta la loro educazione sentimentale maffiana nell’addentare, con innata eleganza, qualche bel boccone di mozzarella di bufala.
Nessuno l’ha distinto con precisione, ma a me è parso di sentire nella sera che volgeva al tramonto, un urlo, un lamento gorgogliato, lancinante: erano le galline di Maffi ingiustamente escluse dalla festa, dalla mozzarella e da un sorso di uno stupefacente Egly-Ouriet, quel che ci voleva per l’uovo del giorno dopo. Iniquità, deplorevole iniquità, vostro onore. Una delegazione di galline si fece avanti nella sera, ma l’avvocato Grammauta, intento a giocare a nascondino con Pignataro, nemmeno le considerò.
Ancora indignato per cotanto sopruso, mi volto e provo un tuffo al cuore nel vedere rapato a zero il cuoco Angelo, che ricordavo, non solo raffinato norcino gurmé di Camaiore, ma anche dotato di una folta criniera riccioluta e dorata: un sibilo di scimitarra mi aveva fatto temere il peggio, ma allo stesso tempo comprendere perché il Guardiano del Faro cercasse di preservare la folta capigliatura sale e pepe avvicinandosi con estrema e insospettabilmente morigerata cautela agli champagnes.
Tra il continuo tintinnio di cristalli causa la reciproca e fisica impenetrabilità di circa centocinquanta bicchieri allineati sul tavolo a bordo piscina, tiepide e dolci insalate di sugarelli e seppioline, profumati tartufi estivi, paccheri e ravioli di ricotta, gamberi commoventi, solo dopo averli mangiati, e docile chianina alla brace hanno mescolato i loro effluvi e sapori con un’infinità di sensazioni agrumate, mandorlate, affumicate, idrocarburate, albicoccate, salate, muffate, fruttate, cerate, speziate, sottoboscate e tutte le ‘ate che volete, che avrebbero meritato, ad esser sinceri, pacate riflessioni, abbracci e ripensamenti settembrini sugli anni e sull’età, col dono usato della perplessità anche se a estate appena iniziata (cit.), non fosse stato per l’intenso e puntuale gramelot di Cauzzi e per la contentezza di Grammauta certo ormai di avere Pignataro al suo fianco.
Solo seguendo i segnali di fumo del sigaro cubano che il notaio Tumbiolo si era acceso dopo aver deposto l’orrenda scimitarra, a notte fonda i commensali riuscivano faticosamente a riguadagnare la collina, novelli marines a Iwo Jima: la prova era stata dura, selettiva, ma adesso molti si salutavano per nome, alcuni si davano appuntamento ma non più dalle pagine di giornali, blog o socialcosi, altri forse caracollavano, Maffi benediceva ostentando autentica commozione.
Nomi, firme, nick, mail avevano una faccia, si guardavano negli occhi, si stringevano la mano sulla collina di Bargecchia.
Avevano sicuramente un nome anche i bellissimi capelli biondi riflessi nelle ennesime bollicine e negli occhiali di Grammauta al tavolo ormai notturnissimo dell’Enoteca Marcucci, in un vicolo della marmorea Pietrasanta: freschi ricordi invernali che si allontanavano col rumore di tacchi sul selciato, tra qualche Goldrake sgomento. Ma questa, forse, è un’altra storia o un’altra visione.
Le foto sono del Guardiano del Faro
Il repertorio di Antonello Tumbiolo, notaio in Pietrasanta
Champagnes
Philipponnat reserve millesimè
Philipponnat Magnum le reflet
Philipponnat Clos de goisses ‘89
George Lavalle Pinot Meunier
Egly- Ouriet grand cru V.P
Renè collard cuvee reservee ‘90
Bianchi
Auxey-Duresses 2004 Domaine d’Auvenay Bize-Leroy
Mersault Les Narvaux 2004.
Clos de la Coullée de Serrant 1981 Nicolas Joly
Hospices de Beaune 2004 Meursault- Charmes Albert Bichot
Chevalier Montrachet 1990 Grand Cru Georges Deleger
Corton Charlemagne grand cru 1989 Domaine g. Roumier
Cervaro della Sala 1992
Bourgogne Aligote 2007 Alice et Olivier de Moon
Rossi
Saint–Estèphe Cos d’estournel 1997 Domaines Prats
Nuits-St Georges Leroy 2006
Clos de la Roche 2000 cuvée vielles vignes domaine ponsot
Sassella Vigna Regina 1999 Ar.pe.pe.
Ruffino Chianti classico 1990 riserva
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