Da alcuni mesi sto riflettendo sui concetti di fretta e di velocità. In realtà si tratta di due cose diverse, il primo è uno stato d’animo che tende ad anticipare quello che invece ha bisogno di essere atteso. Il secondo è un dato fisico, che possiamo misurare scientificamente.
La fretta è sempre stata vista come un difetto: festinare nocet dicevano già i latini, mentre i napoletani amano ripete spesso: ‘a gatta, pe gghì ‘e pressa, facette ‘e figlie cecate (la gatta per andare di fretta partorì i figli ciechi).
Al contrario, l’uomo ha sempre avuto il mito della velocità: annullare lo spazio e guadagnare tempo è sempre stato l’obiettivo di ogni civiltà, il cui primo segnale è sempre, appunto, costruire strade e inventare modi per andare più veloci.
La velocità ha certamente favorito i commerci, ed è sempre stata un riferimento anche nella produzione sino a quando con il capitalismo l’abbattimento del tempo necessario ha coinciso con la compressione dei costi ed è diventato un parametro di valore assoluto: più merce in meno tempo possibile.
Ed è stato così che la velocità ha finito per coincidere con la fretta. I disastri ambientali e l’abbassamento della qualità dei prodotti sono stati una costante, spesso con gravi conseguenze anche sulla salute umana.
Quando questi parametri sono stati introdotti nell’agricoltura la situazione è diventata catastrofica. La chimica usata sconsideratamente che sembrava aver liberato l’uomo dalla fatica dei campi si è rivelata un veleno per il terreno e per la salute umana.
Sia l’indutria che l’agricoltura hanno iniziato a invertire la rotta a partire dalla fine degli anni ’80, coloro che hanno posto più attenzione alla qualità del tempo sono quelli che poi hanno meglio affrontato il processo di globalizzazione iniziato proprio in quel periodo.
La rivoluzione informatica ha però spostato i limiti oltre ogni fantasia eliminando lo spazio e il tempo in un sol colpo. Tutti possono essere in qualsiasi momento ovunque e in contatto con chiunque.
Iniziano ad esserci studi interessanti sulla psicologia relativa all’uso dei social, per esempio è stato acclarato che le persone più timide e riservate sono tra le più disinibite e spesso aggressive nelle relazione virtuali. Molti leoni e leonesse della tastiera approcciate personalmente tornano ad essere gattini timidi che si rifugiano in un angolo per non essere visti.
Un aspetto sin qui poco considerato riguarda invece la fretta di realizzare i propri obiettivi. In realtà sui social sembriamo davvero tutti uguali: forza fisica, temperamento, esperienza, studi, competenze, appaiono improvvisamente annullati e il confronto virtuale sembra metterci tutti improvvisamente alla pari.
Avere molti like equivale ad una sniffata di coca e piano piano per alcuni, forse per troppi, l’obiettivo non è più quello di esprimere contenuti e idee, ma di raccogliere like per sentirsi importante e al centro di qualcosa. L’apoteosi di questo atteggiamento la stiamo misurando con Instagram dove davvero l’immagine è tutto e, per parafrasare il titolo di un film di Vanzina, “sotto il vestito niente”.
Una recente ricerca ha confermato che questo atteggiamento riguarda in modo particolare proprio gli italiani che sono il popolo che meno di ogni altro la percezione della realtà, come dimostra l’atteggiamento sul problema dell’immigrazione.
Insomma, gli italiani sono il popolo che vivono più il virtuale del reale.
Di fatto questa tendenza ha portato ad un impoverimento: dal 2008 al 2017 il reddito medio italiano è passato da 38mila a 30mila dollari e i millennials sono la prima generazione più povera della precedente dopo due secoli di continuo miglioramento.
Oggi bravi smanettatori possono fare una recensione di un ristorante come se ci fossero stati una vita intera, oppure parlare di un vino come se lo avessero fatto. Al tempo stesso, chi ha queste capacità, matura spesso la convinzione che l’esperienza del reale sia un inutile accessorio e che tutto sia possibile, qui e adesso.
Sono in poche parole saltati dei valori con cui quasi tutte le generazioni sono cresciute, rispettando o contestando poco importa, il peso culturale della prassi come primo elemento fondamentale della conoscenza.
Non è facile arginare questa tendenza, ribadire il valore del tempo necessario a maturare conoscenze ed esperienze appare alla maggioranza come il voler cambiare i canali senza usare il telecomando. Ti guardano stupiti e ti chiedono agitati: perché? Perchè fare i ravioli a mano quando quelli congelati sono buonissimi, chiese uno tagista a Salvatore Tassa.
La vittoria dei Cinque Stelle ha, al di là di mille motivazioni valide della protesta e delle malefatte del ventennio Pd-Pdl, la base proprio nei social, è la presa del potere del popolo di Facebook ed ecco perché, alla prova dei fatti, reali, la Lega prende la leadership pur avendo in partenza la metà dei voti.
Perché il popolo di Facebook è così. Va di fretta, non approfondisce, trova in rete uno studio sui veleni del latte e diventa subito un riferimento per fare una battaglia per la sua abolizione. A me è capitato sempre più spesso di fare discussioni con persone che duellano a prescindere dalla realtà e che non si vergognano di dire sciocchezze. Anzi, qualcuno ha addirittura teorizzato che questa forma di dialoghi è la elaborazione di una conoscenza vera e democratica. O persone che si sono offese perché non ho rilanciato su Facebook ciò che avevo pubblicato sul sito e aul Mattino! Insomma, un vero rovesciamento della realtà.
Si arriva insomma al punto di non ritorno in cui i contenuti, quello che si vuole esprimere, siano qualcosa di cui si possa fare a meno. Lo vediamo nelle presentazioni a cui non interessa più nessuno niente, si cerca una foto, un video, capaci di spingere l’indice verso il like e basta.
Nessuno sa cosa in realtà faccia e pensi la Ferragni, ma tutti sono disposti ad investire su di lei e per questo è diventato il mito dei tempi moderni. Per raggiungere il successo non è più necessario saper fare qualcosa, nulla se non capire come strappare questi like.
Sull’altare della fretta si immola ogni cosa, e, si diventa tutti uguali. Sparisce il merito, sparisce la qualità. Come si dice a Napoli: simm tutt purtuall (siano tutti delle arance uguali in una cassetta).
Non neghiamo che anche noi cediamo a queste tentazioni spesso e volentieri, la scorciatoia è sempre lì, ben visibile e facile da imboccare. Perché non farlo invece di puntare al sentiero più stretto e faticoso?
Ma alla fine viene da dire che anche in questo caso il successo e la ricchezza di uno è l’anonimato e la povertà dei tanti. In realtà la soluzione più semplice è praticare la strada più difficile: muoversi invece di stare su solo Google Map, parlare invece di mandare solo mail, prendere appunti invece di fare solo video, bere invece di copiare le note di degustazione, mangiare invece di scattare foto.
Puntare sulla qualità è l’unica soluzione, un rosso con i trucioli non sarà mai un Petrus.
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