Slow Wine 2012
Secondo anno con il gruppo di degustatori della guida della Chiocciola di Bra per me. Mi è sembrato quest’anno ancora più chirurgica questa due giorni di degustazioni che consegna alla super commissione 90 bottiglie delle tre regioni: Campania, Basilicata e Calabria. Il gruppo è collaudato e dunque la tendenza è a “poche chiacchiere e molti fatti”. Del resto, da raccontare c’è già parecchio sulla Guida che non perde, mi racconta Giancarlo Gariglio, neanche una pagina. Anzi. Piuttosto darà ancora di più all’approfondimento delle schede con delle economie su altre pagine che si possono ottimizzare. Cambia il supporto cartaceo cosi’ le mappe diventano ancora più leggibili.
L’edizione 2011 come vendite è andata alla grande ed ha dato soddisfazione anche all’estero dove molti ristoranti, e ci fa piacere, la gradiscono nella versione italiana.
I colleghi
La parte goliardica. Si, perché, sebbene degustare circa 300 vini, i migliori, per di più, di tre regioni, possa essere per molti appassionati un sogno, a volte può rivelarsi un incubo. E allora, l’atmosfera del gruppo è tutto. Quest’anno è stata ancora, se possibile, più serena di quella dello scorso anno grazie ancora ad una maggiore amalgama. Questo ha voluto dire tempi serrati, coordinatore e curatore della Guida con un garbato frustino in mano, ma anche il piacere del lavoro per un appuntamento che tutti noi aspettiamo con ansia. Inutile dire che la fatica è compensata dalle batterie migliori sulle quali c’è lo scambio di impressioni da una commissione all’altra. Elettrizzante, poi, alla fine della batteria, è il momento dell’annuncio dei nomi dei produttori e delle etichette. Le verifiche, le sorprese, le conferme e l’esultanza. Tutti prendono appunti.
L’ambiente di lavoro
Al punto giusto la temperatura per vini e degustatori, quest’anno. Le mura di tufo della Tenuta Montelaura e il tempo incerto della seconda giornata, insieme alla costante freschura irpina che induce negli esseri viventi, dalle piante agli uomini, un ritardo di 15 giorni, hanno giocato a favore delle degustazioni. Fresco in sala e fresco fuori per la pausa. Tutto ha giocato affinché ci mantenessimo lucidi e concentrati.
Le pause
Inizio ore 9,30 e conclusione alle 18,00 circa. In mezzo un lunch break che il nostro coordinatore, Luciano Pignataro, quest’anno è riuscito a contenere come ha sempre desiderato, laddove a Paestum l’aria di mare spingeva inevitabilmente a mettere in testa ai presenti un non so che di festa culinaria. La cucina irpina, di contro, è austera e invita al soddisfacimento dei bisogni fisiologici. Ma solo all’apparenza. Invero è una cucina diretta, di sostanza, che ti stende con la sua saporosità e che va presa a piccole dosi. Dosi che producono dipendenza, però. Il menù del secondo giorno: spaghetti al pomodoro fresco e basilico (qui c’è lo zampino di Pignataro); Cipolla ramata di Montoro ripiena con uvetta, acciughe, pane raffermo e cotta nel vin cotto; insalata del campo della Tenuta Montelaura. Nella serata del primo giorno di lavori, prima di cena, momento culturale: un giro per il parco botanico della azienda con tutte le sue rarità. C’era da aspettarselo: il viale orlato di ortensie, all’ingresso, fa già capire che qui le piante hanno una dimora elettiva.
I vini
Tanti, ma sempre più selezionati. Il lavoro di gruppo fatto sull’Irpinia nei mesi scorsi alla Fabbrica dei sapori ha, a mio avviso, portato a una definizione dei campioni in degustazione di questa importante realtà della Campania, davvero ottimale per qualità e numero. Al lavoro a Forino, ieri e l’altro ieri, due commissioni nutrite e agguerrite. Dovizioso il lavoro di assaggio, dettato dai tempi del vino e dell’uomo.
Alcune considerazioni generali, non personali ma generalmente condivise, mi pare, relative ai vini degustati: gli Aglianico vari dell’Irpinia e della Basilicata, i Greco e i Fiano, i Cirò. Soprattutto., per quello che ha riguardato il mio gruppo.
2010 l’annata prevalente per i bianchi. 2009 – 2008, invece, quella degli Aglianici del Vulture. 2007 quella dei Taurasi. Senza dimenticare Riserve e annate antecedenti.
La Campania può essere più che soddisfatta dei suoi magnifici bianchi di punta: decisamente meglio, però i Greco, rispetto ai Fiano. Vibranti, pieni, esaltanti i primi; più sgranati, tendenzialmente, i secondi. L’Aglianico di Taurasi è a ottimi livelli con la Docg – come mi aveva anticipato l’Anteprima di Taurasi – ma pochi sono davvero memorabili . Tra questi, per lo più, quelli figli di aziende contadine. Mi vengono in mente Boccella e Tecce, che si sono messi in evidenza. Sembra tendano un po’ a una omologazione, pur restando di livello qualitativo alto (scevri da inutili appesantimenti di cantina e di tannini di intollerabile durezza, gli altri.
Emerge, dagli assaggi, che la Doc Irpinia non ha trovato la sua strada. I vini sono per lo più modesti. Peccato perché Campi Taurasini potrebbe essere il volto più abbordabile di un vino che resta per indefessi bevitori provetti, aprendogli una serie di strade.
Molto interessanti gli Aglianici del Vulture, rappresentanti in buon numero. Qui, mi è sembrato, di sentir parlare più chiaramente il territorio vulcanico. Ben evidente la differenza con quelli di Taurasi.. A parte che legata alla frutta, banalmente, la differenza è nello stile. A volte quello lucano, però, resta anche fin troppo amico della concentrazione. Cosa che non sempre è sostenuta da una pari gradevolezza. Insomma: l’Aglianico resta duro anche se ha l’aspetto di un soffice velluto.
La Calabria ha portato dei bei Cirò, tipici. Forse, taluni, ancora “troppo calabresi”, passatemi la definizione approssimativa. Con ciò non voglio che dire che molti sono figli di impostazioni di gusto care alla tradizione ma poco comprensibili ai più. Ne amiamo però la coerenza e ribadiamo che per noi l’alternativa non è il ricorso ai vitigni internazionali. Forse, piuttosto: un po’ meno legno, ma migliore, potrebbe essere la soluzione. Più attenzione alla pulizia olfattiva.
Tra questi vini ho trovato il migliore di questa due giorni. Non è una sorpresa ormai per nessuno sebbene tutti si arroghino il diritto di dire che lo conoscevano prima di ogni altro, come accade per le grandi bottiglie: A Vita Cirò Rosso Classico Superiore di De Franco, vino che ha rubato il soffio di una rosa calabra piena di ardore. Incantevole ed emozionante.
Infine, due note sui Falerno del Massico, sui quali dovrò tornare perché sia le degustazioni di Forino, random (non erano nella mia commissione), che quelle a Capua, al Palazzo Lanza nelle settimane scorse, mi hanno lasciata un po’ perplessa. Qualche collega che ne ha avuto una panoramica più completa ha detto lo stesso in generale per i vini del casertanio. Occorrono forse idee più chiare: sembra che il Falerno attraversi una fase in cui ha finalmente acquisito coscienza di sé ma è in certa di un registro espressivo. Ciò non vuol dire che non ci siano delle stelle, ma ci sono anche troppi lumini. Mi pare, occorrano profili gusto olfattivi più nitidi, più slancio. Ultimi, per trattazione, i rosati di ogni ordine e grado. Su questa categoria ho davvero poco da dire se non che li adoro e che tirano il mercato ma che, purtroppo, nessuno, visti i risultati, ci crede. Quelli degustati hanno convinto tendenzialmente poco a riprova che un rosato è tutt’altro che un ibrido, ma un vino con dei caratteri precisi … se buono.
Bene, qui le mie osservazioni. Valgono come modesto contributo ai lettori e ai produttori quantomeno come memorandum. Una guida, in fondo, non è una condanna o un’assoluzione ma una fotografia scattata da chi guarda, noi, nel mirino sperando che sia la più riuscita possibile. E se non lo è, si aspetta e si spera nel … prossimo anno.
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