di Monica Piscitelli
La prima delle tessere di un mosaico complesso è il Master of Food sulla pizza. Lanciato sperimentalmente a febbraio – grazie alla collaborazione di Attilio Bachetti, Enzo Coccia, Franco Pepe e Massimo di Porzio, tutti titolari di note pizzerie del capoluogo – punta a far capire cosa si può chiedere a una pizza in termini di qualità e, inevitabilmente, a innalzare l’asticella per gli artigiani della più globale delle tradizionali pietanze di Napoli
Il nuovo progetto Comunità del cibo e manifatture dell’arte fornirà già lo strumento principe di osservazione e degustazione della pizza: il piatto. La produzione di utensili per il cibo, lontani dal tradizionale mercato del design, che incorporano la ritualità dello spazio alimentare e la conoscenza delle tecniche di produzione agroalimentari ed enogastronomiche non è un assoluto inedito ma una confortante realtà che attua, sul fronte del cibo, l’incontro tra arte, design e artigianato, incontro per il quale la Fabbrica è nata
Acqua, farina, lievito e sale. C’è davvero poco da aggiungere a una ricetta che ha sfidato i secoli come quella della pizza e che ha nella manualità e nel sapere fare dell’uomo quel quid difficilmente codificabile che fa la differenza. Eppure, dopo decenni di immobilità, c’è fermento intorno alla pizza. Lievitano le idee e per ognuna di esse c’è qualcuno pronto a giurarne la paternità. Il comparto sembra percorso da una tensione nuova, si respira ottimismo, specie tra le nuove generazioni che, reduci da esaltanti performance in giro per il mondo, sembrano credere di potersi chiudere alle spalle il passato di indicibili sacrifici dei nonni e dei padri. A valle di cinque, quattro, tre generazioni di storia della pizza e dei suoi uomini, insomma, sembra davvero arrivato per uno dei piatti più antichi della tradizione culinaria napoletana il momento della resa dei conti. Mentre la crisi economica mette in affanno i ristoranti gourmet, la pizza continua a vivere il suo momento d’oro.
Un Master sperimentale
Si fa la fila davanti ai locali migliori o più alla moda e incomincia a farsi largo tra la gente, forse anche sulla scia del fenomeno social network, un interesse nuovo per la figura del pizzaiolo, il quale sempre più spesso trova il tempo per puntate fuori del proprio locale per un bagno mediatico. Sembra finito il tempo dei pizzaioli chini sui banchi dall’alba a notte inoltrata, nascosti dietro scafaree (ciotole) ricolme di latticini e salsa senza nome. Qua e là si parla di origine e selezione degli ingredienti. Eppure, salvo rari casi, l’interesse degli addetti al settore e della stampa specializzata nei confronti dell’universo dei pizzaioli non ha ancora innescato un generalizzato incremento nella qualità del prodotto o per l’adozione di ingredienti maggiormente pensati.
Sul fronte dei consumatori, poi, quanti di quelli che consumano la pizza si sono accorti della delicatezza del momento? Probabilmente quasi nessuno. Quanti, ancora, sono pronti a concepire un rapporto con la pizza più di testa e meno di pancia? Ancor meno. Ed ecco che “all’altezza del cuore”, la pizza entra nel mirino di Slow Food diventando “un mosaico”, come lo chiama Gaetano Pascale presidente della delegazione campana.
La prima delle tessere è il Master of Food sulla pizza. Lanciato sperimentalmente a febbraio – grazie alla collaborazione di Attilio Bachetti, Enzo Coccia, Franco Pepe e Massimo di Porzio, tutti titolari di note pizzerie del capoluogo – punta a far capire cosa si può chiedere a una pizza in termini di qualità e, inevitabilmente, a innalzare l’asticella per gli artigiani della più globale delle tradizionali pietanze di Napoli. A loro, forti dell’acquisizione di una serie di elementi storici e di tecnica di degustazione, l’acritico divoratore seriale di pizza sarà in grado di chiedere, in un futuro prossimo, spiegazioni sul cornicione (colore, proporzioni e bruciature, ad esempio), sulla consistenza della pasta e la sua digeribilità, ma anche sulla scelta degli ingredienti, analizzandone qualità, cottura e sapore. Familiarizzato con i segnali trasmessi dal piatto, più avanti, si farà il gran balzo spalancando lo sguardo sull’universo dei Presìdi. Questa tessera dell’articolato progetto di Slow Food Campania sarà al suo posto quando, ai tavoli del circuito Pizzerie dell’alleanza, che include i più significativi locali storici, l’artigiano al banco utilizzerà uno o più Presìdi per la preparazione delle proprie pizze, segnalandoli puntualmente in carta insieme al nome di chi li ha prodotti.
Convessità d’artista
Ma prima che questo diventi realtà, il nuovo progetto Comunità del cibo e manifatture dell’arte avrà fornito già lo strumento principe di osservazione e degustazione della pizza: il piatto. La produzione di utensili per il cibo, lontani dal tradizionale mercato del design, che incorporano «la ritualità dello spazio alimentare e la conoscenza delle tecniche di produzione agroalimentari ed enogastronomiche» non è un assoluto inedito ma – spiega Giusi Laurino, direttrice artistica della Fabbrica delle Arti di Napoli, partner Slow Food nel progetto – una confortante realtà che attua, sul fronte del cibo, l’incontro tra arte, design e artigianato, incontro per il quale la Fabbrica è nata. È il caso del tagliere per i formaggi stagionati dell’Appennino campano, disegnato dal designer Salvatore Cozzolino e realizzato dalle manifatture Cotto Rufoli di Ogliara (Salerno), che non solo offre un alloggio alla lama utilizzata per il taglio del formaggio, ma che è perfino studiato per accoglierlo e assorbirne gli umori. Ma è anche quello delle dolci sculture realizzate in occasione del Natale e dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
Con il piatto per il prodotto simbolo del capoluogo partenopeo, le comunità del cibo e manifatture dell’arte, toccano il loro più recente traguardo: rispondere alla domanda: se è possibile esaltare, a tavola, le qualità della pizza. Quando la Fabbrica si è messa al lavoro sul primo piatto pizza convesso della storia, qualcosa nello scambio di idee tra il designer Cozzolino, l’artigiano di Cotto Rufoli e i pizzaioli chiamati a dire la propria, deve aver pensato di sì. «L’esatta accentuazione di questa prominenza qui al centro è quello che ci ha dato più filo da torcere» racconta Giusi Laurino, accarezzando con il palmo della mano il piatto appena arrivato da Orsara. «Adesso è perfetta» aggiunge sollevandolo in aria per guardarlo meglio. «Sì, in questo modo gli ingredienti si distribuiscono uniformemente sul disco di pasta, senza ammassarsi al centro» conclude. L’artigiano del paesello salernitano la guarda, tira un sospiro di sollievo e poi esplode in un sorriso soddisfatto.
LA FABBRICA DELLE ARTI
La Fabbrica delle Arti è un laboratorio di idee nel quale saperi, esperienze, studio e creatività si incontrano in oggetti di varia concezione e destinazione. Piatti di gusto anni Settanta, pouf a forma di cuore spaccato a metà, sedili in legno ergonomici, scintillanti elmi d’oro per donne che scendono in campo, dipinti nei quali trionfano tempere bianche e nere o coloratissime, tovagliati componibili per ogni occasione, installazioni grandi e piccole, collage e ritagli messi insieme da piccoli artisti apprendisti. Ogni cosa, spesso frutto di sapiente riciclo dei materiali, ha una sua collocazione spaziale, all’interno dei saloni e del giardino pensile con affaccio sulla gigantesca chiesa di San Carlo all’Arena, eppure ognuna di esse appare fuori posto, come se fosse in attesa di revisione. In movimento perpetuo.
Ad esserlo, in realtà, è la sua ideatrice e animatrice: Giusi Laurino. A partire da una struttura appartenente alla sua famiglia, la direttrice artistica della Fabbrica, ha messo su un progetto che punta a rintracciare tra i vicoli decrepiti del centro di Napoli, ad un passo dalle mura aragonesi della città antica di fondazione greca, le molteplici energie del saper fare dissipate dall’inedia: quelle dei tanti artigiani appiattitisi sulle sporadiche commesse pubbliche o che sopravvivono realizzando lavori di poco conto; ma anche quelle dei designer, la cui creatività ha spinto in passato gli oggetti a diventare sublimazione del reale, senza alcuna aderenza alla più semplice funzionalità. Artigianato, ideazione e progettazione, a La Fabbrica, invece, puntano a ritrovarsi su un piano comune di comunicazione nel quale, reciprocamente, si arricchiscono facendo. Gli oggetti, oltre che belli, utili e di fattura pregevole, tornano, per questa via, a esprimere al massimo livello l’ingegno e la manualità stratificatisi attraverso generazioni e diventano anche buoni, puliti e giusti.
Renato Barisani, Chung Eun-Mo, Oreste Zevola, Mario Laporta, Nathalie Du Pasquier, Mojmir Ježek, Fabrizio Caròla, Maria Di Pietro, Gianluigi Masucci, Luce Delhove, Salvatore Cozzolino e Bruno Cimmino – artisti, creativi, fotografi e designer – sono solo alcuni dei nomi che hanno lasciato una traccia nel percorso di incontro della Fabbrica con l’alto artigianato campano. Un percorso che – come spiega Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Campania – si è arricchito dal 2010 di questo nuovo obiettivo comune: «costruire un inedito dialogo con le manifatture del cibo della regione».
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