Qualunque sia il giudizio storico sul processo di unificazione italiana un dato è certo: se tornassimo indietro con stati e staterelli il nostro peso specifico in sede internazionale sarebbe notevolmente ridotto, un po’ come è avvenuto nella vicina Yugoslavia le cui diverse etnie anziché convivere pacificamente hanno preferito ritagliarsi il loro sanguinoso recinto per bimbi autoescludendosi dal contesto europeo e internazionale.
Un ragionamento analogo deve essere fatto sul vino italiano che ha la bellezza di 523 fra docg, doc e igt.
Recenti ricerche sulla notorietà di queste denominazioni rivelano che al primo posto messo dagli intervistati c’è il Brunello di Montalcino docg (67%) seguito da Chianti docg e Prosecco doc al 64%, e poi ancora il Chianti Classico docg (62%), il Montepulciano d’Abruzzo doc e il Franciacorta docg (61%), il Barolo docg e il Barbera d’Asti docg (58%), l’Asti e Moscato d’Asti docg e Lambrusco doc (51%). In pratica una risposta tradizionalista con l’eccezione di Brunello e Franciacorta che si sono affermati negli ultimi trent’anni e che lascia fuori denominazioni di successo come l’Amarone, il Bolgheri, il Primitivo di Manduria tanto per citarne qualcuno.
Ma il sistema delle denominazioni italiane presenta non pochi problemi sopratutto dal punto di vista della clientela straniera senza la quale il vino italiano quasi non esisterebbe essendo ormai i consumi pro capite interni scesi sino a 24 litri . In pratica oggi un’azienda, per tenere i conti a posto deve esportare dal 50 al 60% del suo vino.
Ora se anche un italiano non riesce a cogliere tutte le 523 sfumature fra denominazioni che spesso si sovrappongono (Prosecco docg Valdobbiadene su Prosecco doc o Aglianico del Vulture che è allo stesso tempo docg e doc) come immagina che uno straniero possa capirci di più a meno che non sia un esperto del vino italiano? Come spiegare che a volte vini da tavola a volte costano di più di una docg e che una docg ha bottiglie meno care di una doc e di una igt?
Insomma, il vino riflette la nostra anarchia tipica del carattere nazionale in cui alla fine ognuno punta una strada che considera più favorevole ai propri interessi.
Ma su alcune cose si può intervenire con un po’ di intelligenza e guardando più alla convenienza che all’orgoglio di piantare una bandierina, spesso issate dal politico di turno per rivendersela a livello elettorale. Penso alla inesistente doc Pentri in Molise o alla Castel San Lorenzo che rivendica appena tre ettari in Campania. Il tema che ci dobbiamo porre è il seguente: l’identità si difende con il nome o con il numero di bottiglie vendute? il nome giusto, facile da ricordare, aiuta la vendita (per esempio Vesuvio al posto dei Campi Flegrei e Penisola Sorrentina)? Ma soprattutto, per accedere ai fondi e realizzare programmi serie di promozione del proprio vino, è necessario accorpare tutte le denominazioni possibili e immaginabili.
Ne abbiamo parlato ieri in due convegni organizzati a Caserta e a Salerno dai consorzi coordinati da Nicola Matarazzo, che ha visto la partecipazione del presidente di Federdoc Riccardo Ricci Curbastro. Procedere ad una unificazione di più doc vuol dire calpestare l’identità? Proprio in Campania c’è un esempio virtuoso che ha visto proprio Matarazzo protagonista insieme ovviamente ai produttori che hanno aderito: le doc Solopaca, Guardiolo, Sant’Agata di Goti e Taburno sono state unificate come sottozone in una sola, la Sannio doc, con due spin off, l’Aglianico del Taburno diventato docg e la Falanghina del Sannio. Parliamo di doc storiche che avevano dai trenta ai quarant’anni. I risultati, in termini di risorse, si sono viste subito sia in termini di vendite che di possibilità di reperire fondi per la promozione. E del resto un recente progetto che ha avuto direttamente l’approvazione europea è stato possibile proprio perchè più consorzi si sono messi insieme determinando la massa di volume necessaria per diventare interessante.
Il sistema doc è una delle poche cose in cui adesso la politica c’entra poco, sta alla lungimiranza dei produttori decidere il proprio destino. Ma anche in questo caso c’è poco tempo a disposizione, la competizione fra territori è forte, l variabili sono infinite e, come ci insegna la Pandemia, gli imprevisti non calcolabili sono dietro l’angolo.
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