di Raffaele Mosca
Il racconto comincia dalla luce siciliana: quella per molti è fonte di bellezza, e che, invece, per due mostri sacri come Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Luigi Veronelli aveva una connotazione negativa. Il primo,ne “Il Gattopardo”, la indicava come ragione della sonnolenza e della stagnazione della Sicilia: così intensa da causare torpore; per il secondo , invece, era il supplizio dei vini siciliani: una gabbia di calore che li rendeva cupi, statici e sgraziati.
Ebbene, la notizia più importante è che negli ultimi anni la luce in Sicilia è cambiata: non che sia meno abbagliante di un tempo – anzi tutto il contrario, sebbene l’isola-continente risenta meno del cambiamento climatico rispetto ad altre regioni italiane – ma il modo di sfruttarla è totalmente differente rispetto al passato. “ Oggi molti vini siciliani sono intrisi di una luminosità diversa – spiega Giampaolo Gravina, chiamato a condurre un seminario sui vini della luce insieme a Fabio Rizzari – meno violenta e più diffusa: li rende solari e non ombrosi”.
Una svolta partita dell’Etna – l’isola nell’isola – e che pian piano si sta espando a macchia d’olio in tutto il “continente”: è legata sicuramente a progressi sostanziali in ambito enologico e a uno studio più attento di suoli, climi e vitigni. Ma deriva anche da fattori sociali e culturali: tanto per fare un esempio, le statistiche riportate da Assovini, associazione che riunisce oltre cento aziende della regione e rappresenta circa il 20% della produzione totale, riportano dati confortanti sul fronte delle quote rosa: il 97% delle aziende associate hanno donne in posizioni apicali. Un chiaro cambio di passo rispetto al modello del passato, che va a braccetto con il cambio generazionale. Tra i banchi allestiti nel Radicepura Green Resort di Giarre, ho incontrato diversi volti giovani, molti dei quali hanno fatto gavetta fuori regione prima di tornare a casa. C’è chi ha lavorato nell’alta ristorazione in America o Inghilterra, chi si è occupato di enoturismo in Toscana, chi ha studiato enologia o management nelle più importanti università del Nord Italia. Il loro contributo è fondamentale per sprovincializzare la Sicilia del vino, allineare la produzione con quella dei grandi territori del mondo e proiettarla nel futuro.
Ovviamente la rivoluzione passa anche attraverso l’exploit del biologico, che in Sicilia è praticamente un obbligo, visto che ventilazione e irradiazione solare scongiurano la maggior parte delle malattie della vite. Oltre alle certificazioni bio – attualmente detenute da quasi la metà delle aziende regionali – c’è anche SOStain, progetto lanciato dai big dell’isola che valuta non solo l’impatto della conduzione agricola, ma anche la biodiversità, l’efficienza energetica, il peso delle bottiglie.
L’ ASCESA DEGLI AUTOCTONI E LA CRISI DEGLI INTERNAZIONALI
L’ argomento ricorrente in questi giorni trascorsi in Sicilia è stato l’impatto che la rivoluzione “autoctona” ha avuto sulla percezione dei vini regionali. Tornando al concetto di luce di cui sopra, quelli prodotti da uve cosmpolite come Cabernet Sauvignon, Merlot e Chardonnay a partire dai ruggenti anni 90’ sono stati i massimi ambasciatori della Sicilia del calore debordante, tanto da essere considerati competitor diretti dei vini super-muscolosi delle zone più torride del Nuovo Mondo. Il loro successo è stato cruciale in tempi in cui il grande pubblico non aveva ancora la sensibilità necessaria per comprendere la luminosità delicata di un Frappato o di un Nerello Mascalese, ma oggi vivono un momento di forte crisi. “ Ho smesso di produrre il mio Chardonnay – ci ha spiegato Gaetana Jacono, titolare di Valle d’ Acate a Vittoria – era un ottimo vino, ma con tanti Chardonnay di livello nel mondo e tanti autoctoni su cui fare forza, che senso ha proporne ancora uno siciliano?”
Dello stesso parere è Gabriele Rappo, wine ambadassor del gruppo Zonin, che in Sicilia gestisce l’azienda Principi di Butera. “ Continuiamo a produrre Chardonnay per i turisti che vengono nell’isola e lo richiedono – ci spiega – ma il focus si è spostato sui vitigni autoctoni”. Ancora più estremo l’esempio di Giusto Occhipinti e Titta Scalia di COS: loro hanno direttamente deciso di espiantare la vigna di cui producevano il Maldafrica, pioneristico taglio bordolese che – con tutta probabilità – sarà rimpiazzato da una sperimentazione di Nerello Mascalese fuori zona.
La domanda è: i vitigni allotctoni spariranno dalla Sicilia? La moda dell’autoctono ci ha spinto al punto di non ritorno su questo fronte? Probabilmente no, perché ci sono aziende come Planeta, Tasca d’ Almerita e Baglio di Pianetto che ne hanno sempre fatto un uso ben ponderato continuano a riscuotere un certo successo sul mercato puntando sullo stile internazionale. Anche loro riconoscono i cambiamenti in corso, ma si dicono tutto meno che preoccupati, additando il modo in cui questi vini sono stati prodotti – ovvero con una tendenza alla sovramaturazione e all’uso sconsiderato dei legni – come causa del problema e non il vitigno in sé in per sé.
Ovviamente da questo discorso esula il Syrah, che oramai in Sicilia è in quasi-autoctono. La forza della varietà sta innanzitutto nella capacità di adattarsi bene ai climi caldi e siccitosi, e poi nella non-omologazione espressiva. Provate, per esempio, un Syrah dell’ Agrigentino e un altro di Camporeale: troverete due espressioni molto diverse, che non scimmiottano né il Rodano né l’Australia, ma brillano per personalità propria.
I BIANCHI E GLI SPUMANTI SICILIANI
Ci sono delle belle novità sul fronte della spumantistica siciliana, anche questa sempre più incentrata sugli autoctoni. Da Principi di Butera, la famiglia Zonin ha cominciato a produrre Metodo Classico da Nero d’ Avola, sfruttando terreni ricchi di calcare che danno uve con acidità e PH da Champagne. Le due referenze proposte trascorrono un periodo piuttosto prolungato sui lieviti e offrono un bell’equilibrio tra cremosità e slancio. Bene anche il Frappato Metodo Classico di COS.
Tra i bianchi fermi, il Carricante brilla per carattere sempre contemporaneo e “rieslinghiano” (nonostante la crescita quasi selvaggia del numero di etichette disponibili in commercio), seguito dal Cattarratto, vitigno sempre più diffuso nelle zone di alta collina, che dà vini mediamente più semplici, ma sempre tonici, verticali, relativamente “facili” senza essere scontati.
In questo momento si esprime mediamente meglio del Grillo, che da un lato patisce una certa crisi d’identità e dall’altro evidenzia una certa versatilità, prestandosi anche ad interpretazioni fuori dagli schemi. Tra le espressioni più interessanti, segnalo il “Vino” di Florio, celeberrima realtà marsalese che quest’anno ha presentato la prima referenza non-ossidativa in più di un secolo di storia.
Poi ci sono gli aromatici: soprattutto Malvasia delle Lipari e Zibibbo, proposti sempre più di frequente in versione secca, anche per via del periodo non proprio prospero per i vini dolci. Tendenzialmente il bagaglio aromatico ne limita un po’ le possibilità espressive, ma se non altro riescono ad evitare le scodate amare che sono tipiche dei bianchi aromatici fatti più a nord. Lo Zibibbo sembra trovare la sua chiave di volta in orange: la macerazione esalta l’espressione terpenica e allo stesso tempo aggiunge al sorso un pizzico di profondità tattile che garantisce anche una certa versatilità di abbinamento.
I MIGLIORI BIANCHI E SPUMANTI DI SICILIA EN PRIMEUR:
Principi di Butera – Metodo Classico Pas Dosè 2018
Nero d’ Avola o Blanc de Noirs da zone più quotate? Viene da chiederselo dopo aver dato una “sniffata” a questo spumante spiazzante prodotto nell’agro di Butera, roccaforte del Nero d’ Avola nella Sicilia interna. Il profumo è decisamente invitante: i soliti ricordi di pasticceria da autolisi si mescolano con lamponi, fragoline, un’idea iodata e una punta di caffè. Volendo proprio trovare l’ago nel pagliaio, potremmo dire che l’effervescenza e più pungente che cremosa, ma tutto questo va solo a rafforzare il senso di dinamismo ed agilità di un sorso che ha comunque la struttura necessaria per reggere aperitivi importanti, magari a base di arancini, involtini di melanzane, panelle, ricotta vaccina e compagnia bella.
Casa Grazia – Adorè 2016
Non il solito Zibibbo, ma un Moscato bianco – anche detto “Muscatedda” in Val di Noto – che, a quasi sette anni dalla vendemmia, sfodera profumi barocchi di marmellata d’arancia e litchi, miele millefiori e spezie dolci, con leggero fondo idrocarburico. E’ all’apice del suo percorso: brilla per solarità ed avvenenza calibrata da un guizzo di sapidità marina. Buono adesso e per i prossimi due anni, soprattutto in accoppiata con pesce marinato agli agrumi ed ostriche.
Florio – Vino 2022
L’etichetta molto moderna e “internazionale” fa subito pensare ai vini non ossidativi prodotti a Jerez. E in effetti è proprio da lì che questa storica casa di Marsala deve aver tratto ispirazione per la produzione del primo vino bianco non ossidativo: un Grillo decisamente inusuale perché ricavato dalle stesse basi del Marsala, che vengono ottenute con una pressatura molto più dura rispetto a quella del classico bianco secco. Il risultato è un vino che svia il solito canovaccio di frutto e note erbacee da tioli per virare su mandorla tostata, camomilla, fieno, pesca giallona e una bella ventata iodata. Contravviene alle mode, offrendo una gustativa avvolgente, con acidità discreta e salinità più in lizza, struttura piena ma non greve. Ottimo con piatti ostici: per esempio una pasta con le sarde.
Tenuta Rapitalà – Alcamo Classico Vigna Casalj 2021
1 milione e 300 mila bottiglie certificate bio non sono uno scherzo. Il dato eclatante dà l’idea del nuovo corso di Rapitalà, gigante del vino siciliano che quest’anno ha presentato una sfilza di vini top di gamma molto interessanti. Tra tutti spicca il vigna Casalj, Catarratto da vigna in alta collina nella zona di Camporeale. Archetipico nel profilo che intreccia pesca nettarina, biancospino, erbe spontanee e giusto un pizzico di agrume tropicale, scorre dritto, sferzante, lineare e con giusta polpa a corredo.
Zisola – Contrada Zisola 2021
Se è vero che il Cattarratto di solito viene bene in alta collina, è anche vero che, esattamente il Grillo, può dare risultati sorprendenti anche in zone un po’ più basse. In questo caso siamo a Noto, non lontano dalla costa jonica. La famiglia Mazzei nella sua tenuta sicula ha voluto sperimentare una vinificazione in cocciopesto per questo vino da viti su “ terre ianche”, ricchissimi di calcare (indispensabile per mitigare le temperature spesso cocenti e mantenere una buon livello di acidità). Le brezze marine contribuiscono a plasmare un profilo di purezza adamantina: iodato in prima battuta e poi fresco-luminoso di zenzero, mandorla bianca, melone estivo. Rimane coerente anche al palato, con ricchi ritorni di frutta a guscio estiva calibrati da iodio e lime,pompelmo e un’idea rinfrescante di mughetto ed erba falciata. La tensione è quasi incredibile per un vino prodotto a sud di Tunisi!
Girolamo Russo – Etna Bianco Nerina 2022
Il Carricante come lo vogliamo, ovvero tonico, profondamente minerale, ma anche polputo e saporito. Oltre al solito cotè metallico-fumoso, A Rina rivela anche un lato più generoso – nespola, camomilla, crema di limoni – che va a rimpolpare il sorso comunque preciso, affilato, salivante, molto centrato e promettente anche per i medi e lunghi invecchiamenti.
COS – Zibibbo in Pithos 2021
Se lo definissimo l’equivalente siciliano della Ribolla di Gravner, non andremmo fuori strada, perché, esattamente come Josko, Giusto Occhipinti e Titta Scalia producono vini in anfora da più di vent’anni. La vinificazione a contatto con l’ossigeno e la macerazione sulle bucce danno vita ad un’espressione esplosiva dello Zibibbo: un condensato di zagara, miele amaro, pesche sciroppate e origano, curry, pepe bianco, un pizzico di salamoia e pasta d’acciughe a completare. E’ coerente al palato, con un tripudio di erbe spontanee che smorzano il frutto generoso e giusto un accenno di tannino da macerazione. Semplicemente magnifico in abbinamento ad una pasta al pesto di finocchietto selvatico.
Planeta – Menfi Chardonnay Didacus 2020
La famiglia Planeta rimane fedele allo Chardonnay e continua a utilizzarlo per il proprio vino più ambizioso, facendo peraltro un uso abbastanza importante delle barrique nuove (68%). Didacus, però, è molto lontano dallo stile “caramellato” molto diffuso in Sicilia: parte sottilmente riduttivo, con un tocco di pietra focaia che fa molto Borgogna; poi si espande su zenzero candito e ananas, ginestra e miele d’acacia, burro ed erbe disidratate. E’ l’anello mancante tra Cote d’Or e Sicilia: largo, voluminoso, accomodante, con legno al suo posto e cremosità canonica; ma anche tanto nerbo – sapido in primo luogo e poi acido – che dà equilibrio alla progressione lunga e raffinata.
Arianna Occhipinti – Bianco SM Contrada Santa Margherita 2021
Lady Frappato se la cava egregiamente anche con il Grillo: questo in particolare è spiazzante già a livello parametrico con i suoi 7 g/l di acidità. Merito di suoli ricchi di marna calcareo-sabbiosa e di uno stile di vinificazione molto preciso: improntato sul non interventismo, ma senza derive talebane. Brilla per estro ed originalità, esplodendo in un caleidoscopio di mandarino e cappero in salamoia, pepe bianco e zafferano. Il sorso è salatissimo, nerboruto, quasi nordico per dinamica snella e improntata sulla freschezza, ma con una commistione di spezie, erbe spontanee, frutta secca e buccia d’agrume in retro-olfatto che ne riafferma l’identità mediterranea. Un pizzico di volatile lo amplifica anziché sciuparlo, rendendolo straordinariamente cangiante.
Graci – Etna Bianco Arcuria 2011
Dalla masterclass sui vini della luce, un Etna Bianco radioso in tutto e per tutto: ampio e goloso di miele e ginestra, nocciole tostate e spezie dolci; evoluto ma senza cedimenti, con un soffio fumè a completare. L’ acidità è quella solita del Carricante, ma il riposo in bottiglia per quasi un decennio lo ha reso molto più generoso ed espansivo. Ammesso che riusciate a trovare una bottiglia, vi consiglierei di provarlo con una cacio e pepe per godere al massimo.
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