di Catia Sulpizi
Perché intervistare ogni componente di sala del Seta del Mandarin a Milano?
Perché quando parli della sala del Seta non c’è un singolo nome che avanza, difficilmente ti senti dire “Si Tasinato (food and beverage manager del Mandarin Hotel che ospita il Seta) è bravo”, ma bensì “sono una bella squadra, funzionano bene”.
Questo vuol dire che Alberto Tasinato non è bravo abbastanza?
No, al contrario, vuol dire che molto bravo, anzi vuol dire che è più bravo di tutti quelli in cui per ego spicca il nome di un solo referente.
Come ci dice Kroc (fondatore di McDonald’s) nelle sale cinematografiche di questi giorni “Nessuno di noi è tanto in gamba quanto noi tutti messi insieme”.
Non è la sala di o la cantina di. Non a caso il premio Cecchi per il miglior servizio di sala per la Guida Espresso 2017 è stato dato proprio al Seta.
È compito del primo maître e del primo sommelier quello di crescere e formare tanti altri primi maître e primi sommelier, sono fermamente convinta che fare formazione faccia parte delle loro mansioni e che questo contribuisca a rendere il sistema “sano”.
Queste “prime donne” devono coltivare nuovi talenti, nutrire le loro aspettative, condividere il sapere, senza la paura che la scena gli venga tolta, non più “questo cliente me lo seguo io che è importante”, ma bensì “questo cliente seguilo tu che è importante e tu ce la puoi fare”.
Al Seta questo concetto “io ti do fiducia, ma tu fammi vedere che te la meriti” è quasi un imperativo sottinteso, a tutti vengono ugual strumenti e possibilità per essere i migliori, sono tutti coadiuvati a fare e a fare bene.
A questo “tutti” mi sembrava giusto dare voce.
Luis Diaz,
27 anni, secondo maître del Seta, colombiano di sangue, svizzero di testa. Sorridente, cordiale, affabile, ma al contempo equilibrato, rigoroso, attento, preciso.
Divisa immacolata, postura sempre retta, ma non ingessata, tono di voce deciso, sguardo allegro, vivo.
Trovo una certa difficoltà nelle domande a farlo parlare di se stesso, tende ad evidenziare e lodare sempre il lavoro degli altri, vincitore dell’ultima edizione di Emergente Sala, si forma all’alberghiero, sceglie cucina in prima battuta, ma poi saranno gli stessi professori ad evidenziare la sua naturale predisposizione alla sala.
Prima esperienza come commis-sommelier al Trussardi alla Scala, a seguire tre anni da Cannavacciuolo dove entra nella posizione di demi chef de rang ed esce come restaurant manager e poi la chiamata di Alberto.
Cosa ti ha convinto ad accettare la chiamata, cosa hai percepito come vincente in questa opportunità?
Il modo di essere di Alberto mi ha convinto, l’ho conosciuto al Trussardi aveva 26 anni, era restaurant manager, sin da subito di lui mi colpì il lato umano, si vedeva che ci teneva veramente che tu stessi bene, anche quando veniva commesso un errore, non c’era un tono eccessivo, lui si metteva accanto a te, ti spiegava con calma, ti metteva a tuo agio, ti faceva capire quanto fosse importante non solo risolverlo l’errore, ma capirlo e condividerne la soluzione.
Cercava più possibile di farci lavorare in un clima sereno ed equilibrato, tutto questo mentre lui invece subiva delle pressioni incredibili.
Per lui non era affatto facile, ma faceva in modo che per noi tutti i giorni fosse sempre più semplice.
Di vincente ho percepito l’idea di sala che Alberto si era prefigurato, una sala dove l’essenza stava nel valore della squadra e nella condivisione della direzione.
Spiegami come siete squadra durante un servizio.
Da un insieme di molti atteggiamenti, esempio:
La nostra sala è divisa in ranghi e i ranghi variano ogni sera in base ai clienti o ad esigenze logistiche, quindi di prassi pur sedendosi allo stesso tavolo il cliente non è detto che abbia lo stesso cameriere, ma dal momento che per Alberto (e noi tutti condividiamo) è fondamentale dare un servizio personalizzato e trasmettere quel calore dato anche dalla continuità di un referente, tutti noi siamo modulabili per favorire il cliente, quindi se arriva un cliente che di solito seguo e lui manifesta il piacere di essere seguito anche in quell’occasione da me io faccio il possibile per essere presente su quel tavolo e la squadra va in copertura nel rango che io ho lasciato. E andare in copertura può voler dire anche che lo stesso Alberto, come tutti noi, si ritrovi fare mansioni più basse del suo grado. Oppure ci sentiamo molto squadra nella carta bianca che ci da Alberto per fidelizzare, coccolare, conquistare un cliente.
Chiunque di noi può offrire un calice o un dolce se lo ritiene efficace per far star bene il cliente, chiunque di noi può soffermarsi al tavolo a parlare se il cliente mostra questo desiderio.
“non devi prendere iniziativa senza che io te lo dica” non è il nostro credo.
Siete una squadra anche al di fuori del lavoro?
Certo, noi crediamo ed abbiamo desiderio di essere una squadra non solo di lavoro, ma di comunione di intenti, di condivisione di esperienze, di conoscenza, di divertimenti, noi facciamo visite alle cantine insieme, andiamo a provare i ristoranti, facciamo di nostra iniziativa degli approfondimenti esempio sulla postura, usciamo a berci un drink, questo ci permette di conoscerci meglio anche come persone, di affrontare i problemi con un tono di leggerezza, di capire limiti e potenziali di ognuno di noi; crediamo che questo apporti solo effetti benefici al Seta.
Come definiresti il servizio del Seta?
Un servizio che esce abbastanza dagli schemi, un servizio curato ma adattato al modo di relazionarsi dei nostri giorni.
Cerchiamo di essere meno meccanici possibili, tutto è abbastanza modulabile, il fine è trasmettere cura, calore, attenzione e non l’esecuzione perfetta del gesto.
La tecnica può fare un passo indietro se in quel momento ciò è valutato come funzionale.
Il fine è fare stare bene e non essere perfetti.
Com’è il rapporto con la cucina e con lo chef?
Di complicità estrema, si ragiona totalmente per il bene della struttura.
È vero che la cucina prende i riconoscimenti, ma lo stesso chef Antonio Guida ci dice che è sbagliato pensarla così, non fa che dirci che queste stelle sono di tutti noi, di ogni componente del Seta e non solo lo dice ma ce lo dimostra tante volte mettendosi da parte per far si che anche il nostro lavoro venga alla luce.
Una sala in Italia che ti piace?
La sala dei Cerea per me è un grande riferimento.
Loro sono partiti come azienda a gestione familiare, ma da un lato hanno dimostrato poi di essere ottimi imprenditori collocandosi nel business della banchettistica, dall’altra hanno mantenuto la conduzione familiare collocandola però ai vertici degli standard di servizio.
Che trend avverti per la sala in futuro?
Io immagino una sala meno formale, tornerà ad essere attiva anche in alcune finiture, ma “l’italianità” del servizio inteso come ospitalità calda e allegra sarà quello il grande vero ritorno.
Si farà un passo indietro sullo stile francese, per fare spazio al calore che ci contraddistingue come popolo.
Gianluca De Marco,
24 anni, chef de rang, presente dall’apertura.
Umiltà, idee chiare, passione e una grande voglia di fare
Frequenta l’alberghiero, sceglie da subito sala “perchè mi appassiona troppo il concetto di tavola, di quel che accade a tavola alle persone e io volevo essere più vicino possibile a quel concetto”.
Diploma, primissima esperienza in una pizzeria da numeri, 1 anno e mezzo al Grand Hotel De Milan, apertura del Da Noi In e poi l’importante esperienza all’estero da Gordon Ramsey “mi sono tanto scusato al colloquio di non conoscere bene la lingua, ma loro mi hanno detto che non era problema perché per i primi 5 mesi avrei dovuto solo pulire la sala, ma io avevo talmente tanta voglia di capire quella realtà che anche pulire mi sembrava un privilegio”, diviene chef de rang e rimane fino alla chiamata di rientro in patria da parte di Alberto.
Che cosa hai imparato da Gordon Ramsey?
Che solo stando allineati tutti insieme in una direzione si arriva a certi risultati.
Ho capito non cosa vuol dire essere un team, ma la funzionalità di esserlo: tempi di servizio che si accorciano, percentuali di rischio che scendono, margini di successo che salgono.
Che pensi delle guide gastronomiche, in particolare della Michelin che continua a dare premi solamente alla cucina?
Penso che sia il caso che si rendano conto che questa divisione non esiste più. Noi sala siamo l’alter ego della cucina, non esiste una grande cucina senza una grande sala, esiste la struttura, il ristorante, l’esperienza.
Anche quando si fa formazione si insiste tanto per far capire l’importanza di pensarla come un’unica squadra, non ci sono più i forti contrasti che governavano prima le brigade, questo vale per noi e per moltissimi altri, continuare a premiare solo le cucine è come favorire i contrasti e non agevolare l’idea vincente del team.
Sala ideale?
Servizio non rigido, armonioso nei movimenti, professionale, ma caldo.
Mi piacerebbe che fossero reintrodotti i tranci al tavolo, le preparazioni al tavolo, perché questi gesti ci permettono anche di creare un dialogo con il cliente, di spiegare il nostro lavoro, di stimolare la loro curiosità.
Veniamo al Seta, cosa ti ha spinto ad accettare?
L’ idea vincente di Alberto che era un po’ quella che stavo vivendo, ovvero di concentrare tutto sul concetto di squadra omogenea, in più con l’omogeneità di età e di intenti.
Che vuol dire lavorare in una squadra in cui si è tutti così giovani?
Vuol dire che abbiamo tutti tanto da imparare e da fare, vuol dire che l’interesse è costante, nessuno si sente arrivato, il livello di motivazione è altissimo.
Il vostro organigramma tipo?
Qui tentiamo di non avere una diversificazione di ruoli, Alberto in primis fa tutto, è più concentrato su delle cose che lo riguardano, ma questo non vuol dire che non fa più il servizio al tavolo, qui non ci dividiamo per ruoli, ma per compiti da fare che sono a rotazione, così tutti sanno guardare le spalle a tutti e inoltre ti proietta anche nella possibilità di avanzare come grado perché man mano che lavori tu già acquisisci nozioni che ti sono nuove, è un grande stimolo.
Tra dieci anni come ti vedi?
Sarò un général manager.
Federica Zilibotti,
21 anni, l’ultimo arrivo in ordine cronologico al Seta.
Alberghiero privato al Saramazzoni, tramite la scuola ha l’opportunità di fare uno stage a Le Gavroche che poi si trasforma in assunzione e a 18 anni è già chef de rang presso lo stesso.
Torna a casa per esigenze personali, ma ben presto riparte per un’altra grande esperienza al Dinner di Blumenthel.
Una determinazione che ti ammalia, un curriculum seppur breve che ti sciocca, una devozione al mestiere quasi militare.
Studia tutti i giorni almeno 1 ora, ha fatto della sua estrema timidezza il suo punto di forza, la voglia di rivalsa da chi l’ha sempre ritenuta niente fa il resto.
Non mi stupirei di saperla un giorno una grande figura di sala.
Cosa ti ha spinto a scegliere sala?
Adoro farmi vedere preparata, ricevere gratifiche dal cliente, sapere che parte del suo benessere a tavola è mio.
La sala mi rende felice.
Cosa hai imparato al Le Gavroche?
A Le Gavroche ho visto il servizio francese perfetto che tanto avevo studiato sui libri.
Un servizio maniacale su qualsiasi dettaglio, rigoroso su tutto, formale, lento, il cliente al centro e noi camerieri in ossequiosa distanza.
E al Dinner?
Ho conosciuto il servizio classico inglese, più dinamico, preciso, ma senza fronzoli. Non c’era la tovaglia, non c’era il tasting menu, tutto era velocissimo, facevamo anche 180 coperti a sera, ero stupita di quanto fosse fondamentale non tanto la perfezione di servizio, ma la perfetta conoscenza dei piatti.
I piatti hanno una storia e una esecuzione, il cameriere deve sapere tutto su ogni piatto, ogni passaggio, cotture, marinature, micro cotture.
Tutto, non ci doveva essere una domanda fatta da un cliente sul piatto a cui un cameriere non sapeva rispondere.
Cosa ti ha dato un’esperienza e cosa l’altra?
A Le Gavroche devo l’attenzione per i dettagli, l’eleganza del gesto.
Al Dinner la tempestività di risoluzione di un problema e la comprensione del gioco di squadra.
Perché poi scegli di tornare in Italia facendo un passo indietro visto che qui hai appena iniziato come commis invece di continuare la carriera avviata a Londra?
Perché ho piena fiducia e stima di Manuel Tempesta (conosciuto a Le Gavroche) e se lui mi riteneva giusta per questo progetto io non potevo che affidarmi, inoltre so che questa posizione è temporanea perché io ce la metterò tutta per avanzare.
Tra 1 anno quindi sarai?
Maître (la determinazione che ha negli occhi mi spiazza e mi conquista)
Sono 20 giorni che sei qui, che idea ti sei fatta?
Ho trovato la sintesi delle mie esperienze, qui c’è lo stile di Le Gavroche e l’anima del Dinner.
Come ti hanno accolta?
Benissimo. Ho ritrovato il calore della famiglia che amavo del Dinner, quella tranquillità di dire “non ho capito” , non mi lasciano mai sola, mi sostengono, mi spiegano senza giudizio. Lo chef ti considera, ti sostiene, ti motiva anche se sei l’ultima.
Tutti ti dicono “chiedi, chiedi, chiedi pure 10 volte e non ti far problemi”.
Ed è veramente cosi, ma la disciplina e l’impegno sono caratteristiche che vogliono come base di ogni momento di lavoro.
Ilario Perrot,
il più vecchio della brigata (se mai si può essere vecchi alla soglia dei 30 anni), sommelier del Seta e responsabile di cantina del Mandarin Hotel.
Eclettico ed ermetico, incontra il vino ancor prima che gli fosse possibile berlo, a quattordici anni era stagionale presso La Ciau del Tornavento e a 16 entra fisso a seguir passo passo un mentore come Maurilio Garola.
A seguire Villa Crespi, dove incontra Alberto, che poi seguirà da Torretta, Berton fino ad oggi.
Un sodalizio quello con Alberto che dura da 5 anni con successo. Cosa vi unisce?
Il rispetto reciproco.
È un rapporto sia di amicizia che di lavoro, possiamo ridere e condividere serate, ma quando si torna a servizio per me resta chiaro che un suo “No” non si discute.
Ovvero un “No” di Alberto si accetta prescindere?
Un “No” di Alberto non si accetta perché legato alla sua autorità del ruolo, si accetta perché diventa anche il tuo “No”, Alberto si siede accanto a te, ti spiega il suo punto di vista, ti fa ragionare fin quando la decisione non è condivisa. C’è un confronto continuo, lui chiede a me, io chiedo a lui, ma ogni decisione è sempre per il bene dell’azienda.
Il servizio del Seta è vincente perché?
Perché è sereno e personalizzato.
Squadra vincente è una squadra che sorride sempre.
La proprietà, lo chef e Alberto fanno tutto il possibile per farti lavorare in un clima di tranquillità, non senti il peso del giudizio, avverti la volontà e l’impegno di fare andare bene le cose e così il resto del personale semplicemente si allinea a questo mood.
Personalizzato perché il nostro primo obiettivo è mettere il cliente a proprio agio ed ognuno ha il suo modo, cerchiamo sin da subito di creare l’interazione attraverso una chiacchiera, lo scopo è farlo divertire, rilassare, ridere e spesso è il cliente a scegliere con chi si trova meglio.
Non ci sono limiti di ruolo in questo caso, se per esempio simpatico il tavolo si trova bene con il ragazzetto che porta il pane noi preferiamo farlo seguire a lui, che magari non farà un servizio perfetto, ma farà il servizio che il cliente desidera, e il pane lo porterò io o il maître.
Come sta messa la sommellerie oggi?
È un po’ lasciata ai margini.
La tendenza per la carta dei vini? Torneranno carte “Bibbie” o ci saranno carte snelle e dinamiche?
Non so percepire ora il trend.
Una figura a cui ti ispiri?
Antonio Santini, un ottimo padrone di casa, non di quelli “faccio tutto io”, ma un padrone di casa che si dedica all’accoglienza e al concetto di ospitalità.
Cosa ti aspettavi come riscontro di critica e di pubblico? Avevi più o meno aspettative?
Mi aspettavo esattamente quello che abbiamo ricevuto, perché ci siamo preparati molto, siamo stati più di un mese a locale chiuso a fare cene per ottimizzare i movimenti, le intese tra di noi, tutti abbiamo studiato tanto e tanto ancora studiamo.
Se ti prepari, stai concentrato e ti viene data l’occasione per giocare la tua partita non puoi sbagliare.
Prima foto da Web.
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