di Giovanna Pizzi
È qualche anno che scrivo per questo blog ma non ho mai scritto di Sergio Arcuri. Troppo facile per qualcuno pensare “Sei di parte”.
Ma, sapete, credo e ho capito che il giudizio non è mai assolutamente oggettivo, che un parere, un’idea, una sensazione, chi scrive deve per forza avercela. Specie se scrive di sapori, di persone, di storie.
Ed io sì, è vero, sono di parte: dalla parte della qualità, della bellezza e della bontà. Vera e figurata. Ed è di quella che amo scrivere.
Con Sergio ci conosciamo da più di un decennio. Il nostro percorso nel “cibo e vino” calabrese è iniziato pressoché nello stesso momento. Nel 2009 lui iniziava a imbottigliare ed io mi iscrivevo ad un corso di sommelier. Qualche tempo dopo lui usciva con un sorprendente rosato ed io vincevo un concorso come miglior sommelier Calabria. Era il 2011 e quando ho messo al naso per la prima volta il suo “Marinetto”, rosato da Gaglioppo dai profumi intensi e immediati, che si fa notare per la sapidità figlia del mare e la finezza del calcare da cui nasce, ho subito pensato “questo è un folle”.
Poi l’ho conosciuto ed ho avuto la conferma. Ed “Effetto Marinetto”, lo slogan del suo vino, rende un po’ l’idea.
Sergio Arcuri, per me (perché come disse ironicamente un mio mentore “è sempre meglio relativizzare”), è un genio folle.
È passione e istinto che celano genialità.
È l’elemento borderline, quello che devi eliminare dai calcoli statistici perché sballano la media.
È uno di quelli veri, a briglie sciolte.
Quelli che non si vendono e non si comprano.
A parte i suoi vini che si permettono il lusso di costare quello che vogliono perché tanto valgono. Come l’opera di un artista.
Quello che fa tutto di pancia e di cuore.
Zero compromessi, soprattutto nel vino.
Quel vino che se dipendesse da lui farebbe pigiando l’uva coi piedi (anzi l’ha pure fatto, e l’ha chiamato “Antinoia”, ma solo per berlo con gli amici.)
Uno che con la vigna ci fa l’amore e in cantina vive di sensi, sensazioni ed emozioni.
“Liberaisensi” è infatti il suo bianco, potente e fresco greco bianco in purezza, che anno dopo anno dal primo imbottigliamento ha acquistato carattere, spessore, identità e stabilità. Ho assaggiato da poco il 2021, in attesa della nuova annata, e in realtà non me l’ha fatta desiderare, perché freschezza, masticabilità, salmastro e frutto sanno di “oggi” a dimostrazione che “ieri” per un vino bianco è e può essere un concetto relativo.
Sergio è uno che aspetta che l’uva sia pronta per essere vendemmiata come un padre fuori dalla sala parto; prende a morsi gli acini uno dopo l’altro fino ad accertarsi che siano a giusta maturazione. E non ha nemmeno bisogno di fare troppi calcoli, lui misura “a sentimento” e quando dice “raccogliere” si raccoglie e quando poi dice che si può imbottigliare si imbottiglia, magari assaggiando il vino, col bicchiere direttamente dal rubinetto della vasca, anche a distanza di poche ore se serve.
Numeri, acini per bottiglia, bottiglie per ettaro, clima, piogge, temperatura, c’ha tutto in testa, come il contadino di una volta.
E quando parla dei suoi vini ti innamori, se già non è stato un colpo di fulmine il primo sorso, perché ne parla come parla di sua figlia Arianna. Con lo stesso amore e lo stesso orgoglio. Ne parla come quello che ha creato tutto con le sue mani e gli brillano gli occhi.
E poi lui è un indipendente. Uno che sceglie anziché essere scelto, anche chi deve bere il suo vino. Segue imperterrito il suo istinto e la sua filosofia. Non gli interessa la massa, si defila con piacere. È uno che non deve esserci per forza, lì dove sono tutti. Fa parlare di sè perché non c’è. Come quando non manda i vini per le guide o per i concorsi se non lo ritiene, o non va al Vinitaly perché non crede (o perché non lo sa, come l’edizione post Covid fuori stagione), oppure come quando lo incontri al Cirò Wine Festival che assaggia i vini degli altri da semplice avventore.
Insomma, non è facile descrivere il personaggio, Sergio è il suo vino e il suo vino è Sergio.
Ma si può certamente affermare che è un vignaiolo puro. È l’unico “Triple A” in Calabria. Niente di più facile, visto che incarna perfettamente l’Agricoltore, l’Artigiano e l’Artista.
E una quarta “A”, aggiungo io, è quella del suo primo vino, “Aris”, Arianna più la S di Sergio, gaglioppo in purezza, manco a dirlo, l’uva regina della sua produzione, coltivata in pieno rispetto della natura e secondo i dettami di un’attenta agricoltura biologica. Vino che ha in sè i venti caldi provenienti dallo Ionio e i terreni rossi calabresi ed è espressione identitaria di un territorio che ha molto da dire. È un Cirò Rosso Classico Superiore, da vigne ad alberello di oltre 50 anni, carico ed irruento come le onde del mare che lo impreziosiscono di una sapidità quasi densa. Tanto frutto, spezie, sottobosco, cioccolato, ampiezza, profondità e qualche spigolo che lo rende complesso. Ho appena descritto il 2017, è il momento perfetto per goderne.
Ma allargando il focus su Sergio, è lui stesso a raccontare che le fondamenta della sua attività sono la sua famiglia e la sua terra, la sua amata Cirò Marina.
“Qui a Cirò abbiamo tutto: il mare, le colline, le vigne e il vino” dice.
Il bisnonno Peppe, con la passione per la coltivazione della vite, tanto sacrificio e semplici nozioni di agricoltura, ha lavorato così bene la terra, da lasciare ai suoi eredi un enorme tesoro. Vigne vecchie ad alberello e fermentazioni spontanee, questo il segreto, e suo figlio, Peppe, a nove anni, aveva già capito che la sua vita sarebbe stata in quel vigneto. Innestatore di centinaia di viti e coltivatore della sua amata terra, ha trasmesso la stessa passione ai suoi eredi, mettendo in piedi la sua cantina nel 1973 e trasformandola definitivamente in una vera e propria azienda vinicola nel 2009, con l’aiuto proprio di Sergio e suo fratello Francesco.
Le tecniche si sono affinate mano mano e tutt’oggi supportano il duro lavoro in cantina, dove il vino si fa tradizionalmente in vasca di cemento aperta, il palmento, e la fermentazione si innesca spontaneamente grazie ai lieviti naturali di un’uva che gode del clima e dell’umidità giusti che fanno del Cirò, quello di Sergio, ma ovviamente di tutto il territorio, un vino dalle preziose caratteristiche che si declinano in eleganza, struttura e longevità.
“Non abbiamo bisogno di nuovi macchinari tecnologici, preferiamo fare tutto a mano per sostenere il pianeta e perché per dar vita a un prodotto di nicchia non servono necessariamente macchinari automatici.” Parole di Sergio. Basta poco, parlandoci, per capire i punti cardine della sua filosofia.
“Custodiamo il lavoro di chi prima di noi ha coltivato la terra e i vigneti con rispetto, impegno e dedizione.” Il suo pensiero è chiaro e carico dell’importanza degli insegnamenti di un passato che continua ad essere presente e anche futuro, per le nuove generazioni.
Il forte senso di appartenenza alla terra, che nutre e regala i suoi frutti, fa da cornice e si ritrova tutto in quella che è la sua migliore bottiglia, la Riserva “Più Vite”, la punta di diamante, il cru, il nettare del vigneto “piciara”, viti sempre ad alberello di oltre 70 anni.
Il nome del vino sta proprio per “più vite”, più vite vissute, quelle che la vigna ha visto della famiglia Arcuri, sta per longevità e resilienza.
È prodotto solo in alcune annate, le migliori, matura 4 anni in vasca di cemento e affina 1 in bottiglia, giusto quello che serve per domare i tannini sapendo che darà il meglio di sé non prima di dieci anni. Più Vite dà un senso di sicurezza, con i suoi toni austeri e profondi, la sua struttura importante e polposa, è un vino per palati esperti, tanto che sarebbe possibile scambiarlo per un grande Barolo o un potente vino francese.
È appena uscito il 2016 ma io aspetto il 2018, il “vino abbandonato”, come lo ha soprannominato Sergio, lasciato lì senza accorgimenti a diventare la versione migliore di se stesso. E soprattutto conservo il 2015, del quale ho anche una bottiglia autografata in anteprima, non si sa mai!
L’ho sentito qualche settimana fa.
-“Hai finito di vendemmiare?”
-“Proprio oggi”.
Come quando annunci qualcosa a chi ti capisce.
-“Me lo sentivo”.
“Il vino è una grande fortuna, una forza senza limiti. Non importa dove si fa, che dimensioni ha la cantina, conta solo quello che c’è nella bottiglia” parole di Sergio, cariche dell’amore e della passione per il suo vino.
Le stesse che ha per la sua terra, la Calabria.
E infatti aggiunge che il potere del vino non è solo relativo al mondo dell’enogastronomia.
Il discorso di Sergio è più ampio.
“Chi viene a trovarci dà vita al turismo più bello, quello della gente che ama la natura ed è curiosa di scoprire il mondo genuino del vino”. Quello di Cirò appunto, una Doc che meriterebbe una giusta valorizzazione dall’Unesco -parole sempre sue-, fatta di vigne antiche che sono state maltrattate in passato ma che con i sacrifici degli agricoltori che amano la propria terra sono state salvate dall’estirpazione e possono così tornare a testa alta nel mondo dei grandi vini.
“Il mio obiettivo – conclude Sergio – è quello di ridare dignita alla Doc Cirò, portarla nuovamente in alto. Abbiamo l’oro nelle mani e non lo possiamo sprecare.”
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