di Fabrizio Scarpato
La domenica era un rito. Prima impastare, poi fissare la macchinetta a un traballante tavolo in formica magari con l’aiuto di qualche zeppa di legno, subito dopo tirare la pasta e infine cuocerla, per fare le lasagne.
I rettangoli di pasta venivano tirati su dall’acqua bollente e passati nel colapasta sbuffando, soffiando, qualche volta sacramentando. Dopo un taglio più o meno regolare, restavano pezzi di pasta vergine, spesso arricciati, magari arrotolati dispettosamente su se stessi a formare nodosi grumi, callosi malfatti.
La domenica mi abbuffavo di pasta a crudo, scondita, così come usciva dal bollore: ritagli di pasta all’uovo, pasta fatta in casa, che tuttavia consentiva un’ involontaria regressione all’istinto più bruto e primordiale: mordere.
La sera di Ferragosto i ricordi sono facilmente affiorati, le cose buone restano sempre a galla e a portata di memoria. Tra le luminarie romantiche e nostalgiche del Serendepico ho riconosciuto quell’istinto di fronte alle Ruote Pazze Benedetto Cavalieri.
Scartabellando negli scatoloni di Giuggiolone ho conosciuto la fama e l’aura di straordinarietà di questo formato, dinamicamente futurista, citato nel film di Ozpetek Mine Vaganti, come simbolo di “anormalità”, di quello scarto dalla consuetudine che rende una cosa, un cibo, una vita, diversa, per certi aspetti geniale, per altri più semplicemente libera e autentica.
Le ruote sono effettivamente e totalmente pazze, sbilenche e imperfette: trafilatura a triplo spessore, diverse consistenze della corona rispetto ai raggi e al perno centrale. Tre morsi, tre affondi, impossibile fare giochini infantili, men che meno impilarle: sono alte, intense, fragranti. Crudamente vere e uniche.
Ruote Pazze alla Saracena e crudo di tonno: un filo esile di emulsione d’olio, basilico e prezzemolo, il tonno rosso a dare sapidità. Nient’altro: la ruota è nuda, atto di ribellione all’ovvio abbraccio di un sugo. Niente da capire, solo ricordare. Sgambetto all’istinto, restituzione del gioco, in contropiede: domenica è sempre domenica, si sveglia la città con le campane… Tuffi d’amido al cuore.
Sballottandomi tra passato e presente, Damiano Donati riannoda i fili della memoria con una cucina quasi fisica, di morsi e scrocchi, persino estrema nell’ideare e disegnare nuove esperienze. Lampi di contemporaneità, promessa di futuro. Mina vagante.
Nella notte stellata, alla luce della luna, sotto il crepitìo dei fuochi d’artificio, nel giardino serendepico brillanti fili colorati avvolgono, distrattamente, le vecchie, bianche sedie impagliate.
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