di Fabio Cimmino
Qualche tempo fa la celebre master of wine Jancin Robinson ha scritto un pezzo che mi è rimbalzato in mente ieri sera dopo aver preso parte alla manifestazione 100vini organizzata dalla Meregalli a Napoli. Fermo ad ascoltare tra i banchi di assaggio i commenti degli intervenuti sentivo ricorrente una lamentela riguardo ai bianchi francesi presenti in degustazione. Sia che si trattasse di uno Chablis di Laroche (non proprio l’ultimo arrivato…), sia di uno Chardonnay della Borgogna (con Chanson Pere et fils che non sarà il riferimento dalla zona ma nenanche una scartina…) , sia di Loira (con l’incompreso per eccellenza, il Muscadet de Sevre et Maine), il ritornello era sempre lo stesso “..ma come sono acidi…”.
Addirittura qualcuno lamentava l’eccessiva sapidità (poi si permettono, pure, di parlare di “terroir”) e le grandi acidità di un Bollinger RD90 oppure un Grande Annè ’96 (per me tra i migliori vini degustati nella serata e tra i migliori champagne, in assoluto, in circolazione). Jancin Robinson esordiva in quel bellissimo pezzo, che ho colto l’occasione per rileggere, così: “I wonder why wine drinkers are so wary of acid?”. Faccio mie le sue parole e dico: “Mi chiedo perchè gli appassionati (o forse dovrei dire, pur riconoscendo di peccare di superbia, pseudo-appassionati) sono così spaventati dall’acidità?”. Vorrei riportare, approfittando dell’ospitalità “virtuale” di Luciano (di cui sto abusando sistematicamente di recente…), altre considerazioni della stessa giornalista anglosassone, sebbene con parole mie, che condivido pienamente.
Venti anni fa, quando ancora con il vino mi ci potevo solo “bagnare” le labbra, era normalissimo riscontrare nei grandi vini bianchi francesi, sia che si trattasse di Bordeux che di Borgogna, acidità medie piuttosto elevate anche se non dimentichiamo ciò era strettamente correlato alle più basse gradazioni alcoliche!
Sorge spontaneo allora chiedersi come mai all’improvviso, oggi, una spiccata acidità stia diventando quasi insopportabile… solo perchè considerata l’opposto di dolcezza e rotondità, considerati canoni dominanti?! Forse è più probabile che l’avvento di produzioni “in bianco” provenienti da aree climaticamente più calde abbia fatto emergere sul mercato tipologie diverse diverse più votate alla gratificazione immediata del consumatore, sempre più impaziente in ogni momento della propria esistenza. Aspettare la piena maturità di un vino e pazientare qualche anno per goderne in pieno tutte le sfaccettature sono gesti, ormai, che appartengono sempre più alla cultura passata del bere di qualità e sono sempre meno diffusi tra i consumatori moderni. I vini di oggi finiscono travolti dalla frenesia del mercato che li vuole pronti da subito assolvendo al compito, affatto deplorevole, anzi, di offrire al consumatore un prodotto già “compiuto” senza chiedergli ulteriori attese. Ma c’è sempre un prezzo da pagare. Una minore acidità riduce il potenziale di invecchiamento di un vino. Questo è ampiamente dimostrato dalla stupefacente longevità dei riesling tedeschi che non trova termini di paragone altrove.
Inoltre le sottili sfaccettature che un vino acquisisce con gli anni non sono le stesse conferite ad un vino giovane con operazioni di maquillage di cantina destinate ad esaurirsi nell’arco di pochi anni, se non quando, addirittura, di qualche mese. È come voler paragonare una ventenne rifatta dalla testa ai piedi con il fascino impalpabile di una splendida quarantenne. Ma pur volendoci, per un attimo, allontanare dalla prospettiva puramente edonistica del tutto non bisogna sottovalutare altri importanti aspetti della questione. L’acidità ha, infatti, anche altre funzioni oltre quelle prettamente legate a fini di natura organolettica di sostenere, rinfrescare ed equilibrare la beva. È, infatti, un incredibile anti-batterico ed in particolare protegge dal Brett il responsabile numero uno nell’aroma, sgradevole, di alcuni vini. Per i rossi, infine, il discorso si sposta dal bicchiere alla tavola ed alla maggiore versalità, nonchè migliore capacità di abbinamento, di quei vini dal nerbo acido più sostenuto.
Provate a pasteggiare con uno di quei vinoni muscolosi, iperconcentrati, marmellatosi che tanto ci colpiscono nelle degustazioni quando però ne buttiamo giù solo un sorso o poco più. Vedete quanto più soddisfacente sarà un vino da ben più miti pretese ma con la giusta acidità di fronte ad un piatto di pasta, la classica fettina di carne, un pezzo di formaggio ed altre preparazioni della cucina quotidiana. O forse che tutti nell’era del benessere pasteggiamo, ormai, solo a ritmo di brasati, cacciaggione ed altri ricercate e costosissime prelibatezze?! La “giusta”acidità stimola una cospicua salivazione, ripulisce il palato e lo prepara, invogliando, al boccone successivo! Non voglio con tutto questo essere frainteso e giustificare vini aciduli, privi di corpo e di sostanza ottenuti con uve di scarsa qualità e non giunte a perfetta maturazione che ancora, aimè, popolano il mercato. Voglio solo enfatizzare come un grande vino non possa prescindere oltre ad elevati livelli di alcol e polifenoli da un parametro troppo spesso dimenticato: la “giusta” acidità.
Chi ha paura dell’acidità? Chi ha paura della diversità? Chi ha paura del lupo cattivo? In fondo la gastronomia riflette meglio di ogni altra cosa il pensiero unico di un Occidente piallato e arroccato sulla banalità centrista. Ogni prodotto agroalimentare, dunque il vino come un formaggio, ha il suo plusvalore nella tipicità, nella possibilità di non poter essere ripetuto l’anno successivo perché troppi sono i fattori variabili da una vendemmia ad un altra. Eppure il gusto moderno imposto dalla nuova critica giornalistico-pubblicitaria, forse in nessun settore editoriale le due competenze appaiono così intrecciate fra loro, va proprio in questa direzione e impone ai produttori canoni estranei al terroir per dar loro una speranza di riuscita sul mercato. Molti, la maggioranza, ci cascano, alcuni no e diventano grandi. Ma forse è inutile parlare di questo, siamo di fronte ad una situazione assolutamente distorta, come se un cronista sportivo si mettesse a vendere giocatori e a costruire una squadra di calcio. Una situazione in cui ci siamo avvitati perché abbiamo alle spalle un deserto culturale e gastronomico lungo molti secoli, siamo passati dalla fame nera alle merendine del boom economico degli anni ’60 che piace solo a Gianni Minà. In fondo in fondo tra un Barolo provato ieri sera, così concentrato, vaniglioso, morbido, e l’Amaro 18 Isolabella non c’è più alcuna differenza concettuale perché l’industria ha le sue regole di banalizzazione in quanto deve affrontare il target medio, non i palati raffinati.
Mi incuriosisce invece cercare di capire perché l’acidità, anzi la giusta acidità come dici tu, sia diventato un valore negativo. Probabilmente perché man mano che i moduli comportamentali contadini, sottoproletari, proletari e aristocratici diventano sempre più residuali in Italia e in Europa è la piccola borghesia ad imporre il suo canone di gusto: la sicurezza igienica, l’omogeneità papillare, la possibilità di trovare sempre la stessa cosa anche in posti diversi, il nervosismo provocato da tutto ciò che esce dall’ordinario e dalla consuetudine quotidiana costituiscono la cornice gastronomica degli ultimi anni. Non è un caso che si esce dai parametri gustativi morbidosi man mano che si comincia a scendere al Sud: ma non illudiamoci, Napoli, Palermo, Bari sono ormai solo sfumature del Nord altrimenti non sarebbero città di immigrazione. Mi sono sempre chiesto come sia possibile mangiare tranquillamente le pillole di stupidità degli autogrill, o come si possa solo pensare di entrare nella plastica di un fast food, eppure sono cose che succedono tutti i giorni perché quei prodotti sono il risultato di prove scientifiche e chimiche fatte nei laboratori delle multinazionali agroalimentari, i moderni lager del gusto. L’acidità non è dunque rassicurante come la rotondità e la morbidezza, impone uno sforzo concettuale maggiore per definire la qualità e l’equilibrio raggiunto dal produttore, bisogna apprezzare il terroir e le differenze, avere esperienza e maturità gustativa, arrivare a concepire l’idea che il vino non è uguale dappertutto, provare la curiosità per tutto quanto non è simile a noi e al nostro modo di pensare, vestire, credere e mangiare. Da classe eversiva del ‘900, suoi tutti gli orrori peggiori dalle guerre mondiali e i campi di sterminio, la piccola borghesia occidentale ormai è diventata un ceto conservatore che si contenta del benessere raggiunto ed ha paura che gli possa essere sottratto in qualche modo. E’ invecchiata e preferisce le pappette congelate, evitare i batteri è diventato più importante del piacere di mangiare. E’ questa la stanchezza dell’Occidente di cui si è parlato a lungo sul Foglio di Giuliano Ferrara? Può darsi, visto che i governi sono espressione di un ceto dominante che preferisce fare il giardiniere piuttosto che l’agricoltore.
Chi ha paura dell’acidità? La maggioranza, caro Fabio.
Luciano Pignataro
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