Natale nell’Appennino Meridionale vuol dire Aglianico: è il momento di tirare fuori bottiglie lasciate riposare per anni e goderle grazie al lavoro del tempo che affusola i tannini, riequilibra l’acidità e mantiene vivo il vino senza limiti di tempo: dieci, venti, quaranta? Chissà, nessuno ancora lo può veramente dire.
Tocca al più terrone del gruppo il Garantito igp della Vigilia e allora scelgo un Aglianico del Vulture, un progetto molto bello di Elena Fucci, la prima produttrice a mettere il grande rosso della Basilicata in cura dimagrante dagli eccessi di legno della prima metà degli anni 2000. Subito i suoi vini si distinguono per eleganza, finezza, ottimo rapporto con il legno, estrazioni ponderate e non esagerate e non a caso piacciono un po’ a tutte le guide specializzati, a prescindere dall’orientamento.
Noi seguiamo questa azienda da quando fu fondata una ventina d’anni fa dal papà Salvatore, abbiamo visto Elena crescere, laurearsi in Enologia a Pisa, maturare una capacità di comunicazione anche grazie a suo marito Andrea, un toscano che conferma il primato di questa regione nel saper raccontare e saper vendere come nessuno in Italia. Insomma, la sostanza c’è, la parola anche. Ma stavolta non parliamo di titolo, ma di Sceg, una parola di derivazione albanese che indica il frutto del melograno, simbolo di fortuna e di speranza sin dall’antichità. Albanese? Si, perché il paese di Elena si chiama Barile e come Ginestra e Maschito, ha la popolazione di origine albanese, quelli che circa 500 anni fa per fuggire dai turchi che avanzavano si insediarono nelle zone interne dell’Italia Meridionale. In questi secoli il sangue si è mischiato, ma alcune caratteristiche restano, soprattutto una intraprendenza lavorativa e commerciale che li distingue ancora oggi.
Elena ha avuto il nonno in vigna e quando gli amici del nonno si sono avvicinati a 90 anni, ha cominciato a riprendere i loro terreni che, altrimenti, come in tanti altri casi, rischiavano di essere abbandonati perché purtroppo la rivoluzione vitivinicola in Basilicata non ha ancora comportato una radicale inversione di tendenza nel coinvolgere le giovani generazioni a tornare.
In questa piccola regione di poco più di 600mila abitanti è difficile ricavare reddito soddisfacente e la terra è lavorata ancora quasi esclusivamente dalle generazioni anziane.
L’idea nasce nel 2016 e coinvolge quattro distinte particelle su suolo vulcanico non lontano da Titolo per un totale di un ettaro e mezzo con 5000 viti piantate alla fine degli anni 40. Breve macerazioni, elevamento in botti da 500 ettolitri e,, dopo due annate sperimentali, la 2016 e la 2017, ecco in commercio la 2018 con un prezzo al consumatore di poco meno di 30 euro sul web.
Le tecniche di allevamento sono biologiche, si usa il sovescio con la coltivazione dei fagioli, in totale poco più di 7mila bottiglie per questa prima annata. Insomma, un progetto per tenere in forma viti antiche, tramandare la fatica di una generazione, cosa che per noi, in quest’anno pandemico che ha colpito soprattutto le giovani generazioni, ha un altissimo valore simbolico.
Il vino, c’è bisogno di dirlo, è di grande stoffa, elegante, fine, una bella amarena croccante al naso che si ritrova al palato in una cornice fumè, una promessa di evoluzione che sicuramente potrò essere mantenuta ma che però non impedisce un bello stappo anche adesso in presenza di un piatto ben strutturato.
Ecco, questa è la nostra storia di Natale e capite perché non ci stancheremo di scrivere di vino: basta alzare lo sguardo dal bicchiere e si trova un mondo di persone, di comunità, di cose da raccontare.
Buon Natale!
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