Ecco perché adoro internet. Girando di qua, girando di là, spesso e volentieri si beccano pezzi davvero gustosi, documentati e che fanno riflettere oltre l’ufficialità. Come questo di Sara Carbone, produttrice di Aglianico del Vulture, che ha partecipato alle finali di Vini Buoni d’Italia. E allora, con il suo gentile consenso, lo rilanciamo. E’ vero, tocca temi tritati e ritritati, ma stavolta da una diversa angolazione ed è questo che lo rende inedito e interessante (l.p.).
di Sara Carbone
Come ogni anno sta per cominciare il solito circo di fine estate: al grido di “NO ALLE GUIDE!” si scatenano i pasionari del vino. Aspettano di verificare le aziende premiate per poter dire di non essere d’accordo: “TUTTI VENDUTI, TUTTI UGUALI!”.
Quest’anno la guida edita dal Touring Club “Vini buoni d’Italia” ha organizzato a Buttrio le consuete giornate di degustazione dei vini arrivati in finale per l’assegnazione delle corone. La novità di quest’anno era la presenza di tre commissioni di appassionati che avrebbero assaggiato gli stessi vini in concorso, con le stesse modalità delle commissioni ufficiali, assegnando delle corone non ufficiali.
Lo scorso anno la corona era toccata ad un nostro vino, quest’anno invece non avevamo bottiglie in finale, così, senza interessi personali da difendere, ho deciso di provare l’esperienza dall’altra parte della barricata ed ho quindi prenotato la mia partecipazione alle degustazioni degli appassionati.
Vorrei subito tranquillizzare eventuali complottisti: non è che volessi fare chissà quale inchiesta sui processi ed i meccanismi che portano poi alle valutazioni finali delle guide, ero semplicemente interessata al test su me stessa alle prese con un numero importante di degustazioni alla cieca: dicono che il modo migliore per un giocatore di qualsiasi sport per aumentare la comprensione e la stima nei riguardi degli arbitri sia proprio di provare lui stesso ad arbitrare.
La prima giornata si è svolta con degustazione di una sessantina di vini piemontesi, la seconda invece, stesso numero complessivo di vini, ma provenienze varie: Istria, Val d’Aosta, Calabria Emilia Romagna, e per finire Campania.
La prima giornata di assaggi è stata dura per il fisico. Lo so che a molti sembrerà assurdo, ma a sera ero sfinita come dopo una giornata di fatica sui campi.
La seconda giornata è stata meno impegnativa sul lato fisico, ma mi ha cancellato le poche certezze che avevo sulle mie papille gustative.
I primi vini degustati nella mattina, con le papille ancora vivaci, sono quelli di cui ho maggiore consapevolezza, sia nella prima che nella seconda giornata.
Non sono il palato più allenato del West e certo non ci vuole un indovino per prevedere che negli ultimi assaggi, quando le papille sono sature di millanta sostanze e sensazioni, la percezione perde acutezza e diventa più difficile la valutazione.
Le certezze mi sono venute meno proprio con l’arrivo dei vini campani: fiano, greco e aglianico, la regione a me più familiare per via della vicinanza al mio territorio. E invece, arrivati ai Taurasi, oltre il 50° assaggio, la sorpresa: dal primo all’ultimo una nota sola dominante: dolcezza.
Tanto da chiedermi di che Taurasi si trattasse, tanto da pensare che si sentisse la mano del selezionatore per quella uniformità nella scelta. Due giorni dopo è arrivato l’elenco ufficiale e in chiaro delle degustazioni. Uno shock la scoperta che nel bicchiere c’erano vini bevuti più volte, in altre annate certo, ma di sicuro vini che non hanno una nota dolce prevalente. Alla cieca non ho riconosciuto né apprezzato la scelta stilistica di vini come Poliphemo di Tecce o Opera mia – Tenuta cav Pepe o anche il Naima, aglianico cilentano di De Conciliis. Scelta stilistica che c’era solo nel mio palato, visto che di sicuro non sono produttori alla ricerca di note dolci.
Se volete potete anche scatenarvi sulle mie scarse capacità di degustatore, della mia mancanza di allenamento, sul fatto che il mio palato e la mia sensibilità siano scarsi.
Avreste ragione. Ma il mio fallimento è servito a rafforzare la prospettiva: le degustazioni sono una fotografia, parziale, fatta in condizioni di stress, da persone che fanno un lavoro corale che cerca di essere oggettivo. Ognuno di noi è portatore di preferenze e di punti di vista parziali, che per fortuna aiutano la diversità nel mondo del vino italiano. Io ho visto nelle giurie ufficiali persone appassionate, serie e preoccupate del lavoro di selezione fatto, per il quale mettono la propria faccia.
Dai, su, finiamola con il dire che le guide sono inutili, evitiamo anche di parlare di vini solo sulla base dei premi presi. Le guide sono una rappresentazione fotografica di un territorio in un preciso istante e vista da un particolare punto di osservazione.
Non sono mai bocciature a vita, così come un premio non è per sempre.
Grazie a Sara e grazie anche a Filippo Ronco. L’articolo lo trovate cliccando qui
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