di Giulio C. Conti e Claudio Salsa
Il menu di San Valentino? Non c’è il minimo dubbio: salame e prosciutto dei mastri norcini, pasta tirata a mano con il cinghiale o le rigaglie di pollo e, ancora, la lunga litania di secondi, dall’agnello alla brace, alle salsicce e tagli alla griglia. E poi, che diamine, le bruschette: con un olio di oliva così buono da andare di testa. Poco romantico? Manco per niente: perché al santo nato nell’antica Interamna Nahars, i sapori della sua terra sarebbero piaciuti eccome.
Terni, l’Umbria: davvero il baricentro e il cuore gastronomico di un’Italia di una cucina schietta e rurale: caratteri che si accentuano in un micro-mondo di cose buone dove nemmeno i ristoranti più blasonati prescindono da un legame franco e indissociabile con la terra e la memoria.
Quello stesso che rivive con orgoglio nelle diverse manifestazioni gastronomiche che si rincorrono nel corso dell’anno nell’intera ‘regione verde’ fra cui si ricorda – tra le più radicate e blasonate – il festival gastronomico ‘l’Oro di Spello’ al quale ogni anno partecipano cuochi da tutta Italia, per abbinare all’olio umbro le loro specialità regionali.
A Terni, terra dove San Valentino è patrono, ci sono altre unicità, prima fra tutte la ‘pizza grassa’, con gli sfrizzoli di maiale e dove la pasta, ben stesa, fa la vera differenza.
Molti se la fanno a casa, ma c’è un luogo di pellegrinaggio da segnalare, l’asporto di Elio in piazza Solferino. C’è poi la cosiddetta ‘padellaccia’, che si prepara nel giorno in cui il maiale viene ucciso e ‘spezzato’ – come si dice quaggiù – con ritagli di carne grassa e (eventualmente) animelle, il tutto soffritto con poco olio, aglio e cipolla fine, aggiungendo vino rosso a fine cottura.
Ma è nella faraona alla leccarda che la rusticità si fa nobile, elegante, quasi ricercata: cotta al forno a legna e accompagnata al patè di fegatini di pollo e della faraona stessa, è un vezzo della cucina contadina che non può mancare sulla tavola delle feste, in particolare il Natale, dove rappresenta un bell’assist che anticipa l’immancabile pampepato. Un dolce che fa entrare in competizione ogni buona massaia che ne produce, in vista del 25 dicembre, quantità industriali da regalare agli amici. Insomma, non sei ternano se non hai la casa invasa dai pampepati degli amici finanche nell’armadio della camera da letto, di fianco alla sciarpa rossoverde. E poi i dolci, con il (troppo) vicino ricordo di frappe, castagnole e delle specialità di un Carnevale terminato ‘col botto’ a ridosso della festa patronale.
Risentono della vicinanza col Lazio (‘scollinata’ la cascata delle Marmore e il lago di Piediluco si è ormai nella piana reatina) anche la tradizione della porchetta, della coratella d’agnello e della ‘barbazza’ (il guanciale del maiale) scottata.
Qui, del resto, si respira già aria di Amatriciana e Gricia, le ciriole si fanno pure con carciofo e pancetta e i pesci dei piccoli specchi d’acqua che hanno preso il posto dell’enorme lago Velino, prosciugato dai Romani, non tengono testa alla venerazione per le frittelle di baccalà.
E, ci mancherebbe, non solo a San Valentino.
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