di Sara Cordara*
La mozzarella è un formaggio fresco o latticino a pasta filata originario della Campania, è una specialità tutta italiana che all’estero ci invidiano. La dicitura “mozzarella” può essere utilizzata solo per quei formaggi freschi a pasta filata prodotti secondo un preciso metodo di lavorazione, conferendole gusto e consistenza caratteristici. Contrariamente, non può essere conferita tale dicitura. Ma qual è la ricetta originale della mozzarella? Si parte dal latte (per la dop solo ed esclusivamente bufalino) a cui si aggiungono dei fermenti lattici (trasformano il lattosio, lo zucchero del latte, in acido lattico), in maniera tale da creare un ambiente acido, poi si aggiunge il caglio estratto dallo stomaco degli animali ed è così che si genera la cosiddetta cagliata, che riposa per circa 4 ore. In questo lasso di tempo, i fermenti lattici hanno il tempo di agire più o meno completamente sugli zuccheri presenti. A questo punto c’è il processo di filatura, in cui si aggiunge il sale e il tutto si immerge in acqua bollente per ottenere la mozzarella, che verrà poi raffreddata e confezionata. Il gesto di separare la massa cagliata con la mano, stringendo la pasta filata tra pollice ed indice della mano, è il “mozzare” da cui deriva il nome del latticino. Questa è la procedura da seguire per ottenere la mozzarella, quella autentica.
Quando ci rechiamo al supermercato e ci avviciniamo al banco frigo per acquistarne una, attenzione che i soli ingredienti che dobbiamo leggere per fare un acquisto consapevole siano soltanto quattro: latte, fermenti lattici, caglio e sale. Nei giorni scorsi ho effettuato una mini indagine in un supermercato, analizzando sei mozzarelle, ma solo due lo erano veramente.
Quelle false o fast si riconoscono perché tra gli ingredienti non sono menzionati i fermenti lattici (quelli che determinano il sapore e l’aroma del prodotto assieme alla qualità del latte), che vengono sostituiti con i “correttori di acidità” come l’acido citrico o l’acido lattico, sostanze che riducono i costi e i tempi di produzione.
Di quelle sotto esame solo la Vallelata (Galbani) e la Reginella d’Abruzzo, sono risultate mozzarelle autentiche con tutti e quattro gli ingredienti menzionati, invece le altre quattro sono catalogate come false mozzarelle, con nessuna traccia dei fermenti, tutti sostituiti dai correttori di acidità.
Inoltre, un inconveniente non da poco è che se i fermenti lattici sono assenti il formaggio avrà sicuramente meno sapore e per ovviare a questo problema spesso le aziende abbondano con il sale, rendendo la mozzarella di consistenza talmente dura da farla assomigliare più ad una provola o, addirittura, ad una scamorza! Un altro problema che rimane tutt’ora irrisolto, e che ho già sottolineato in alcuni altri miei articoli precedenti, è che la normativa vigente non obbliga le aziende a riportare sulle etichette l’indicazione di origine delle materie prime e la natura della cagliata.
Per coloro che non hanno dimestichezza, il caglio (o presame) è una miscela composta da vari tipi di enzimi in grado di scindere la caseina, proteina idrofila (che si scioglie in acqua) presente nel latte, e di provocare la coagulazione delle rimanenti caseine, idrofobe (quelle che si sciolgono nei grassi). Per effetto del caglio la massa proteica, non più solubile nell’acqua, precipita sul fondo a formare la cagliata, che può essere raccolta e lavorata per creare il formaggio.
Il caglio può avere diverse origini:
1) animale: estratto generalmente dallo stomaco (abomaso) di vitelli o di pecora o di maiale (mi viene in mente il Pecorino di Farindola);
2) microbico: estratto da una muffa, è un coagulante economico e di qualità inferiore a causa della sua attività proteolitica meno specifica;
3) vegetale: ne esistono diversi e dai sapori particolari, ad esempio l’estratto ottenuto dai fiori del cardo selvatico (Cynara Cardunculus) che viene impiegato in alcuni formaggi, portoghesi, algerini e italiani, come quelli prodotti nelle Alpi Kinara o tra l’Abruzzo e il Lazio. In Salento, per il formaggio Pampanella si utilizza ancora oggi il lattice che fuoriusce dai tagli delle parti verdi dell’albero del fico. In Basilicata è nato invece il Carciocacio, con il caglio del carciofo bianco di Pertosa.
Fatte queste premesse, se prendete un formaggio che avete in frigo noterete che difficilmente viene specificato il tipo di caglio. Vi fornisco però una certezza: di sicuro quando vedete la scritta DOP (denominazione di origine protetta) avete la sicurezza matematica che sia fatto con caglio animale, altrimenti la certificazione DOP non viene nemmeno contemplata e rilasciata.
In linea di massima possiamo comunque dire che i formaggi di produzione industriale usano spesso il caglio batterico, anche se per quelli spalmabili di “ ultima generazione ”, che io neppure considero dei formaggi, di caglio non ce ne è nemmeno l’ombra. Molti formaggi tipici usano caglio animale, specie quelli del Sud Italia e quelli prodotti in maniera più artigianale.
A differenza del Grana Padano, il Parmigiano Reggiano usa SEMPRE caglio animale. Per il Grana dipende da ditta a ditta. In pratica comunque l’unico modo per avere la certezza è telefonare ai produttori o alle aziende di riferimento
Concludo sperando, come sempre, in nuove regolamentazioni e obblighi di etichettatura, anche per una reale e consistente tutela del Made in Italy.
*Nutrizionista – specialista in scienza dell’alimentazione
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