di Marco Contursi
In questa afosa estate, un lettore del blog, dopo il mio pezzo sul rapporto tra critica gastronomica e i lettori, mi ha sottoposto un articolo di un quotidiano che parlava di uno chef italiano che era stato licenziato in Francia, perché si rifiutava di cucinare gli spaghetti alla bolognese, e parimenti, di fare la pasta scotta, chiedendomi io cosa ne pensassi.
Orbene, mi sono documentato ed in effetti la storia è vera e ripresa dai maggiori quotidiani. Maurizio Landi, oste bolognese, emigrato in Francia è stato : “Licenziato in tronco per la pasta al dente, dovevo essere assunto il 4 agosto a tempo indeterminato, ma non sono arrivato a finire il quarto mese di prova. Mi hanno chiesto molte volte di fare gli spaghetti alla bolognese e io non mi sono mai prestato: lasciavo pronto il ragù alla bolognese e lo usavano durante il mio giorno di riposo con gli spaghetti, a nulla serviva dire che quel piatto non esiste e che per il ragù ci vogliono le tagliatelle”.
Fino a qui, la cosa mi ha fatto sorridere, ma la voglia di farlo mi è passata nel leggere che alcuni giornalisti e critici famosi l’hanno duramente attaccato, contestandogli che il cliente ha ragione e quindi lo chef italiano doveva adattarsi ai gusti di chi va a spendere nel ristorante in cui lavora.
E qui mi ritorna la massima del cumenda Nicheli “Guadagno, Spendo, Pretendo”……a cui mentalmente ho fatto sempre seguire un pernacchio (con la O) di Eduardiana memoria.
Ma il cliente ha sempre ragione? Ed è giusto che uno chef modifichi il modo corretto di preparare un piatto (ad esempio cottura della pasta ) per accontentare il cliente?
Io credo di NO. Per un motivo per preciso, perché credo e l’ho più volte ribadito, che chi cucina deve non solo fare somministrazione ma anche cultura della tavola e soprattutto debba cucinare, rispettando se stesso, ancor prima che i clienti. Ovviamente, se siamo in presenza di allergie, il fatto è diverso, ma uno chef NON deve prostituire il proprio credo culinario per una manciata di euro.
Ricordo ancora, quando, adolescente, mangiavo la carne cottissima e come in un primo momento ci rimasi male quando uno chef argentino, qui in Italia si rifiutò di farmi un filetto cotto, venendo lui stesso al tavolo a portarmelo al sangue, dicendomi, in un italiano stentato “ Disculpe, ma troppo cotto non è più un filetto, provalo, se non ti gusta, me lo riporto indietro”. Passato il primo smarrimento, lo provai e mi resi conto che era molto più buono di come l’avevo mangiato fino ad allora. Quel giorno, imparai a mangiare la carne. E ancora lo ringrazio, per avermi, seppur con garbo, “costretto” a mangiarla al sangue.
C’è poi un aspetto da non trascurare, un menù è una offerta al pubblico e come tale può piacere o meno ma resta quella. Se passasse l’idea che il cliente ha sempre ragione, allora passerebbe l’idea che io posso andare da Bottura a chiedere una penna all’arrabbiata o una salsiccia ai ferri ma non credo sia possibile. O no?
Lo chef propone una offerta che il cliente è libero di accettare o meno, magari chiedendo delle piccole variazioni, in funzione di allergie o gusti personali che lo chef sicuramente farà, purchè fattibili e che non snaturino l’essenza del piatto. Nessuno chef vuole far andar via un cliente insoddisfatto, sempre che sia possibile accontentarlo.
Il cliente può poi decidere se tornare o meno in quel locale, oggi la scelta è varia e non mancano posti dove potrà mangiare. Punto.
Proprio recentemente a Zibello una chef mi ha garbatamente fatto notare che i primi piatti del suo menù prevedevano tutti una copiosa dose di parmigiano e che farmeli senza, io non mangio formaggio, era snaturare il piatto. Ho capito la cosa e ordinato altro (un gran piatto di salumi) e sono stato ugualmente bene, anzi ho apprezzato la professionalità e la passione della chef.
Teniamo ben presente, che è il cliente che va a “casa” dello chef, e che quindi deve accettare l’offerta del locale. Non è lo chef che viene a cucinare a casa del cliente , che quindi decide cosa vuole. Uno chef di un ristorante, non è un cuoco personale.
Fare lo chef è dura e molti lo fanno veramente con passione. Essere costretti a cucinare qualcosa in un modo totalmente diverso da quello proprio, vuol dire farsi violenza.
Eppoi, una buona volta, vogliamo capire che chef, critici, giornalisti, devono fare cultura del cibo e non scendere al livello del popolo ignorante (ossia che non conosce la cucina) per compiacerlo magari in cambio di un like su trip advisor o di un libro venduto in più????
Sono stanco di dover sentire macellai dire che la carne non la frollano poiche il cliente la vuole “fresca accisa”, o salumieri chiedere ai salumifici, pancette magre, capocolli poco stagionati o prosciutti senza grasso perché il cliente così li vuole. Se io fossi un salumiere e mi chiedessero una pancetta magra, direi “Signora c’è il petto di pollo”. Non si può snaturare un animale costituzionalmente obeso per far contenta la massaia ignorante.
Uno di questi criticoni al povero Landi, una volta mi scrisse “vuoi forse decidere tu cosa le persone devono mangiare”? Se vieni nel mio locale (qualora ne avessi uno), certo. Padrone tu di andare dove vuoi, ma se vieni da me è perché apprezzi la mia cucina che è fatta di passione e convinzione di darti il meglio e il meglio non è certo una pasta scotta, un capicollo di 3 mesi o una suola di scarpa come carne.
Se quindi un cliente Francese entra in un ristorante italiano e chiede pasta, deve accettare di mangiarla come Cristo comanda, se la vuole scotta, se la facesse a casa. Cosi, se io vado in Francia, non posso chiedere a uno chef di farmi una sole meuniere (sogliola alla mugnaia) senza burro ma con olio extravergine. Secondo voi come reagirebbe? Mi direbbe, elegantemente con la R moscia, “Va te faire foutre”.
Come dargli torto?
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