
Alfonso Sarno
«Sant’Antuono, teccate ‘o vviecchio e ddamme ‘o nnuovo e ddammillo forte, forte cu’ nu fierr a ret a porta», «O salsicce o salsicciotto, vino crudo e vino cotto, sia pur l’osso del prosciutto, Sant’Antonio accetta tutto», «Chi festeggia Sant’Antuono, tutto l’anno ‘o pass bbuono». Sono soltanto alcuni dei numerosi proverbi che hanno protagonista Sant’Antonio Abate, l’eremita nato verso il 250 in Egitto e morto ultracentenario, a 106 anni, il 17 gennaio del 356 nel deserto della Tebaide e raffigurato con la barba bianca, un maiale ai suoi piedi, l’austero abito monastico, la campanella scacciadiavoli e tentazioni, il fuoco ed il bastone a forma di tau. Simbolo distintivo, quest’ultimo, dei Canonici Regolari di Vienne conosciuti anche come i Cavalieri del Tau o del Fuoco Sacro e membri dell’Ordine monastico-militare fondato nel 1095 da un nobile francese di nome Gastone come voto per la guarigione del figlio che seguì il padre nella vita religiosa, dall’ergotismo o herpes zoster, malattia conosciuta anche con i nomi di “fuoco di sant’Antonio” o «male degli ardenti”.
Miracolo ottenuto dopo che il nobiluomo era stato in pellegrinaggio nel Santuario francese di La Motte Saint Didier dove si veneravano le spoglie dell’anacoreta portate in Francia, al ritorno dal pellegrinaggio in Terra Santa, da Jocelin de Chateau Neuf che le aveva ricevute in dono dall’imperatore di Costantinopoli. Inizia così a diffondersi in tutto il mondo il culto per il “santo del porcello” come è stato definito per distinguerlo da Sant’Antonio da Padova caratterizzato nell’iconografia dal giglio ed indiscusso signore del fuoco e degli animali in generale, prometeo della cattolicità per avere – come narra una antica leggenda – rubato il fuoco dell’inferno regalandolo agli uomini affinché potessero nutrirsi e riscaldarsi.
Dono gradito non soltanto da coloro che lavorano a contatto con il fuoco come ceramisti, pompieri, fornai e pizzaioli che l’hanno voluto quale protettore ma anche dai norcini, dai salumai e dagli allevatori tanto che la sua immagine campeggia sia accanto ai rosseggianti forni che negli allevamenti a testimoniare la sua fama di “medium” tra il cielo e la terra, tra gli umani e Dio. Già, perché Sant’Antonio Abate, pur vissuto in perpetua penitenza, cibandosi di radici e locuste è da sempre considerato come un benevolo, indulgente nonno sempre pronto a perdonare, ad impetrare dal Signore affinché il sudore e la fatica degli uomini e delle donne trovi la giusta ricompensa e sia accompagnata da momenti dedicati all’otium ed al sano divertimento.
Ed, infatti, la sua festa precede di un giorno il Carnevale, trionfo dei piaceri della gola prima delle privazioni quaresimali e viene degnamente celebrata dai pizzaioli che hanno scelto il 17 gennaio quale “Giornata mondiale della pizza” istituita nel 2017 quando l’arte del pizzaiolo napoletano e, di conseguenza, la pizza napoletana, venne dichiarata dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità. E non basta: gli aderenti all’Associazione Verace Pizza Napoletana gli hanno dedicato la “Sant’Antonio”: sintesi degli attributi del barbuto anacoreta: il rosso del pomodoro e del peperoncino rimandano alle fiamme della fede; la salsiccia o il salame piccante ricordano il maiale mentre il provolone del monaco fa memoria del contributo dato dal santo, considerato il primo degli abati, all’elaborazione del monachesimo cristiano come oggi conosciuto ovvero una comunità formata da monaci impegnati all’osservanza dei voti di castità, obbedienza e povertà e consacrati sotto la guida dell’abate al servizio di Dio e dei bisognosi.
Antonio, il venerato abate: santo della luce perché strappa una ora al buio della sera, del porcellino che ricorda le tentazione a cui fui fu sottoposto dal diavolo che gli apparve appunto sotto forma di un porco ma, in maniera speculare, anche il sollievo offerto dagli unguenti preparati dai monaci per curare i malati di herpes zoster con il grasso suino, ritenuto di grande efficacia tanto che i maiali potevano uscire dai recinti del monastero dove venivano allevati, circolare liberamente per le strade cittadine e nutrirsi degli scarti alimentari che trovavano abbandonati, facendo così anche da spazzini ed, infine, del fuoco che rimanda sì alla malattia ma anche a riti purificatori, ai falò. ai fucarazzi che la notte del 17 gennaio venivano accesi nei cortili e nelle piazze di paesi e città. Una tradizione ancora oggi viva, ricordo di suggestive storie. È la notte dei miracoli, in cui tutto è possibile: secondo una antica leggenda, infatti, gli animali acquistano il dono della parola ed il santo visita tutte le stalle chiedendo loro come vengono trattati dai padroni: benedice ed assicura prosperità e buoni raccolti a quelli che li hanno curati bene mentre maledice i contadini e gli allevatori che li hanno maltrattati e sfiancati dal lavoro.
É come scrive Johann Wolfang von Goethe nel suo “Viaggio in Italia”, pubblicato nel 1816 «…saturnale degli animali che di norma sono addetti a portare la soma, ma è anche la festa dei guardiani e dei conducenti». Il giorno in cui l’ordine costituito si ribalta: i signori rimangono a casa o escono a piedi, i cocchieri riposano ed asini, cavalli e muli con le criniere e le code intrecciate di bei nastri sfarzosi sono, finalmente, oggetto delle cure anche dei loro padroni e «…si avvalgono di questa distribuzione di grazie».
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