Corso Sant’Agata, 11
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donalfonso@syrene.it
www.donalfonso.it
Sempre aperto. Chiuso il lunedì, mai in estate. Ferie dal 7 gennaio all’inizio di marzo.
«Solo dopo aver studiato, approfondito e rispettato la tradizione, si ha il diritto di metterla da parte, sempre però con la consapevolezza che le siamo debitori, per lo meno, d’aver contribuito a chiaririci le idee. Naturalmente, se si resta ancorati al passato, la vita che continua diventa vita che si ferma ma, se ci serviamo della tradizione come d’un trampolino, è ovvio che salteremo assai più in alto».
Queste parole di Eduardo De Filippo, dirimpettaio di Alfonso e Livia quando si rifugiava nell’isola d’Isca con la famiglia, aprono il menù del locale. Sono il riassunto, la sintesi filosofica di una impresa, la spiegazione di una spinta propulsiva inesauribile e per tanti orchi ancora incredibile, il segreto ingegneristico di come nasca una grande opera più forte degli uomini, l’avvento della nuova classicità.
La tradizione di cui parliamo ovviamente è quella gastronomica napoletana senza la quale l’Italia sarebbe solo un mosaico di grandi cucine regionali, cioé la tradizione di città nutrita dalla qualità dei prodotti della terra vulcanica che circonda l’unica grande metropoli italiana tra il ‘600 e la metà del ‘900, dove l’uomo ha fatto agricoltura intensiva per la prima volta grazie alla naturale fertilità del suolo e al clima: orti e campi sensualmente e lascivamente sdraiati, come belle donne sul bagnasciuga, tra il Vesuvio e il mare delle Sirene. Così si è moltiplicata la popolazione.
L’innovazione è nella testa geniale di Alfonso, il quale sta alla cucina moderna partenopea come Mastroberardino sta al vino: senza di lui niente sarebbe stato possibile, tanto meno la collocazione della Campania nel nuovo circuito internazionale dei gourmet. La cultura dell’ospitalità naturale e non affettata è di Livia, affonda le radici nell’estro comunicativo del popolo arricchito da una sterminata cultura gastronomica mai ostentata, quel modo di fare naturale in ogni napoletano, che dopo pochi minuti di conversazione ti trasmette la sensazione di averlo sempre avuto con te.
Il futuro è l’estro di Ernesto in cucina e di Mario in azienda, i due figli della quarta, dico quarta, generazione di Iaccarino impegnata in questo settore. Questo è il trampolino da cui il critico del New York Times, R.W. Apple, si è lanciato verso la conoscenza di ciò che vale la pena di mangiare nel Belpaese e non sarà certo un caso se nel suo testamento spirituale, scritto poco prima di morire alla fine del 2006, inserì Don Alfonso, unico italiano, tra i suoi dieci ristoranti da non perdere al mondo
.La sala dove sono venuti praticamente tutti almeno una volta è stata appena restaurata, più luminosa e più bella se possibile, il pavimento a spina di pesce vietrese, ancora riggiole vietresi nella cucina a vista con antichi disegni dell’opulento ‘700, poi la biblioteca e il punto vendita dei prodotti firmati come l’olio delle Peracciole, le conserve di Maida, un agriturismo impegnato all’ombra dei templi di Paestum sulla biodiversità manuale e varietale, la pasta dei Maestri Pastai di Gragnano di capitan Marchetti, i libri. Poi il patìo dove sfumacchiare nelle sere d’estate, passando il tempo a chiacchierare, insomma un mondo intero reso vivo dal personale motivato e altamente professionale, in realtà la vetrina dell’azienda agricola dove Alfonso si distende e ritrova se stesso nel lavoro sotto il sole.
Quando il sapere di quattro generazioni si fonde con una delle più forti gastronomie del mondo ci sono poche possibilità di trovare altri posti in grado di stupire l’appassionato che è stato qui. Un po’ come succede ai romani con le rovine archeologiche, o agli abitanti della Terra delle Sirene di fronte al bello di mare, paesini e rocce, o ai napoletani nel caleidoscopio delle relazioni umane: difficile stupirli tutti.
Il menu della tradizione è il primo bacio: zeppola di astice in agrodolce, ravioli di caciotta fresca e maggiorana con pomodorini vesuviani e basilico, pesce di scoglio all’acqua pazza, selezione di formaggi e piccola pasticceria. Innumerevoli i percorsi possibili, dal menù degustazione scegliamo il nuovo acquerelle di zucca e salsiccia di maiale con crema di pistacchi siciliani o la zuppa di piselli, zenzero e scampi con il biscotto di amaretto. Da provare l’annecchia al guanciale e fiordilatte con spuma di patate e salvia e, classica, lanciata nel 2002, l’anatra all’anice stellato con fritelle di mela annurca e riduzione di Aleatico.
La riscoperta del gateau di patate, rivisitata 2007, è meglio di un babà, il riso carnaroli al latte di mandorla con i crostacei spinaci e pepe bianco è la citazione di un piatto borbonico, i cappelli di pasta farciti di maiale nero casertano con fonduta di parmigiano valgono da soli il viaggio. Figlio della mia passione è il piatto Orecchiette e broccoli con tartufi di mare, pane raffermo, colatura di alici di Cetara e pomodori essiccati, idem il capretto lucano alle erbe mediterranee.
Da citare ancora il dentice in crosta ai profumi primaverili, la pezzogna ai sentori di alloro su cous cous alle verdure e confit di limoni, la classica casseruola di pesce di scoglio, crostacei e frutti di mare, la passata di fagioli cannellini con vongole alla brace, polipetti veraci e semi di finocchietto selvatico. Scorgendo il menù ritrovo alcune scorribande fatte con Alfonso nel Sannio, tra miele e vini-rivelazione a cinque euro, con una carta monumentale per gli amanti dei francesi, viva in ogni parte del mondo, mai scontata in Italia e soprattutto in Campania dove ho trovato aziende fuori da ogni percorso immaginabile.
Chiusure con sorbetti, gelati, la mitica sfogliatella con salsa di amarene, impressionismo di crema e zabaione al caffé, l’eccezionale millefoglie di melanzana al cioccolato bianco e gianduia, erede delle melanzane al cioccolato nate nei conventi della Costiera Amalfitana.L’uso rinnovato di alcune spezie ci ricordano l’ultima avventura, il Don Alfonso a Macao, unico ristorante italiano aperto nell’ex colonia portoghese, un nuovo orizzonte in cui la grande tradizione di una piccola nicchia antropologica racconta la sua voglia di sopravvivere alla globalizzazione. L’ascesa dei tornanti di una delle strade più belle del mondo, una curva ti fa vedere il Golfo di Napoli, l’altra il mare di Positano e Amalfi, è una purificazione gastronomica e spirituale dall’aggressione del Gusto Unico al mangiare quotidiano. Questi anni in cui l’Italia del vino ha dovuto sopportare tanti furbetti delle barrique lo hanno dimostrato ampiamente, la crisi mette in campo i reali valori delle persone e delle aziende.
L’esperienza del Don Alfonso è allora quasi una metafora della vita in questo salire e poi scendere la montagna dopo la prova, la misura della sincerità e dell’umanità del viandante: è importante il bagaglio mentale con cui ci si prepara e si vive nella sala luminosa, la vita, ancora più importante la considerazione principe da portare con se mentre si rientra nel minestrone papilloso di tutti i giorni. Quale? Una su tutte: quando la campagna impone i suoi tempi lunghi di cui tanto ha scritto Braudel nel suo Mediterraneo, vince la sfida ai riflettori mediatici perchè quel che è importante davvero vive per sempre, il resto si ritrae come l’acqua sullo scoglio senza nulla mutare. Il successo del Don Alfonso è dunque qui, nella sua verità mai strillata, ma imposta dallo stile.
Come arrivare. Lasciare l’autostrada Napoli-Pompei-Salerno a Castellammare e proseguire in direzione di Sorrento, poi deviare per Sant’Agata. Il ristorante è al centro.
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