Sandwiches in New York

Pubblicato in: TERZA PAGINA di Fabrizio Scarpato

di Fabrizio Scarpato

Non c’è tempo: è questa la frase che a New York il visitatore svelto dovrà rassegnarsi a pronunciare con avvilita frequenza per tutto il suo soggiorno. New York è tutto, ha tutto, fa tutto: noi invece no. Se poi il visitatore svelto ha anche ambizioni gurmé che coltiva, ahimè, unico tra gruppi di miscredenti, beh il tempo non lo troverà mai. Non c’è tempo per la inesorabile coda a Burger Joint, non c’è tempo per raggiungere dietro l’angolo uno Shake Shack meno frequentato rispetto al chiosco di Madison Park, non c’è tempo per il pastrami di Katz’s perché è fuori mano e Houston (pronuncia Austn) è una delle due o tre strade di Manhattan a doppio senso e a quattro carreggiate. Non c’è tempo: così che a pranzo, cioè quel vago intervallo compreso tra le undici del mattino e le sei del pomeriggio, la lista dei desideri resta intatta, vergine; sempre considerato che di una lista si potrebbe fare tranquillamente a meno, ricavandone forse immensi benefici in termini economici e di salute mentale. Ma il gurmé, oltre che visitatore svelto, è preciso e tassonomico ed è nato per soffrire, sappiamocelo.

“Qui Nuova York, facciamoci un bel panino”, avrebbe detto Ruggero Orlando. Alla fine, per strada, il panino è l’ancora di salvezza. Facile, si direbbe. Invece no, perché noi il sandwich ce lo andiamo a mangiare anche al tavolo e pregherei il sostenitore dell’hot dog del baracchino ambulante di astenersi dal commentare, al massimo si può discutere di un food truck, se lo trovi, quando lo trovi. Insomma non tutti i panini sono uguali, a volte c’è un qualcosa di artistico: no, non è vero, ma mi faceva comodo per tracciare un parallelo e un percorso attorno al MoMA, il Museo d’Arte Moderna, a Midtown Manhattan, 53th Strada, tra la Quinta e la Sesta.

Sulla Terza Av. all’angolo con la 55th St., in mezzo ai grattacieli, spicca il mattone rosso del vecchio P.J. Clarke’s, the Original.

 

Vale la pena solo per quella scritta bianca sul muro screpolato, per le pale dei ventilatori e il bancone, vale la pena per le tovaglie a quadretti rossi, per la schiuma compatta e infinita di una Guinness: un po’ meno per il P.J. Clarke’s Hamburger, preparato esclusivamente con tagli certificati e selezionati di Black Angus Beef, in cui svettano la croccante foglia di insalata, il cetriolo e una insostituibile, nascosta cipolla rosa, a scapito di un pane buono ma meno ruvido di quanto ti saresti aspettato e una carne alta, succulenta, perfettamente cotta al medium, ma inopinatamente insipida. Un classico americano, come Gold Marilyn Monroe di Andy Warhol che ti saresti aspettato più grande, più incisivo, più replicato, più colorato. Più.

Il Time Warner Center risplende non solo per i suoi grattacieli iridescenti, ma per essere la casa di Thomas Keller e del suo Per Se: un arco squadrato, belle piante, un classico bel portoncino blu carta da zucchero e nessuna traccia di sé, se non in un menu da 295 dollari servizio incluso, e la precisazione non è da poco, a disposizione dell’incerto avventore. Basta scendere di un piano e sbavare per una borsina griffata della Bouchon Bakery, panetteria e pasticceria voluta da Keller secondo la consuetudine dei top chef newyorchesi di spaziare e diversificare, non accontentandosi mai di una sola attività. E’ mattino, orario del breakfast e ho a disposizione solo viennoiserie, dolcezze varie, degli splendidi Smoked Salmon Sandwich e colorate Fruit Cups: piccola coda per riempire la bag, svuotare il portafogli e dirigermi a Central Park. Tra gli alberi in fiore del Mall e il prato di Sheep Meadow il salmone fa la sua porca figura, ben marinato, finocchietto croccante e un prezzemolo un po’ sofferente, con un pane molto buono, speziato di semi di papavero e senza inopportuni briosciamenti. Un panino di classe, sin troppo rigoroso, netto, grosso e grasso, che abbinerei al segno nitido di Fernand Léger.

 

MoMA e Momofuku hanno in comune non solo le tre lettere iniziali, ma anche quella sottile vibrazione dell’animo quando si surfa sull’onda della contemporaneità. Il Museo dista circa cento metri dal Momofuku Mà Pèche (la mia tastiera non ha gli accenti giusti), unico riferimento tra i locali ideati da David Chang aperto in Midtown, precisamente sulla 56th St, a pochi passi da quel buco nero finanziario che è Abercrombie & Fitch, all’angolo con la Quinta. Il gurmè avrebbe sicuramente trovato modo di cenare al Mà Pèche, ma il visitatore veloce, con seguito, aveva pavidamente temuto il linciaggio in caso di eccesso di complicazioni culinarie, rifugiandosi nella prospettiva di un Lunch to Go o di un Bar veloce a seconda delle esigenze.

Così è stato, con la gradita sorpresa di poter attingere dalla carta del Bar, seduti ai tavoli in truciolato multistrato della suggestiva sala, molto cinematografica, profonda e colorata di tonalità arancioni. Sfiorata e sforata l’ora che consentiva l’assaggio dei Rice Noodles, il visitatore veloce ha iniziato con due Steamed Pork Buns, due bei gnocconi di pane spumoso bianco e leggero, farciti con un bollito misto di maiale, salsa Hoisin e ortaggi vari, spazzolati in un attimo, tra la via Emilia e il West, per proseguire con un fantastico Bàhn Mì Maison, una fragrante doppia baguette ripiena con Three Terrine, una terrina a tre strati, creata da Tien Ho, braccio destro di Chang dirottato al Mà Pèche dal Ssam Bar, che prevede fegato di pollo, prosciutto, mortadella vietnamita e ortaggi vari, prezzemolati con dovizia. Il gurmé svelto confessa di non aver avuto modo di indagare sulla composizione della terrina, poiché il generoso sandwich era già quasi irrimediabilmente pappato, come mostra il ripensamento fotografico, per quanto sofferente della scarsa illuminazione. Scapriolamenti vari, nonostante le membra provate, del felice visitatore veloce, che non poteva fare a meno di accostare la sorprendente piccola esperienza appena vissuta con quella superficie incorniciata, tagliata e ripetutamente perforata, opera di Lucio Fontana, che aveva potuto ammirare poco prima al museo: nel riflettere considerava che i teli illuminati a spot, stesi sulle pareti del Mà Pèche, disegnavano netti tagli che, nemmeno tanto vagamente, ricordavano quelli celeberrimi dell’artista italiano.

Insomma nella sua lotta contro il tempo il visitatore veloce qualche attimo di soddisfazione l’ha pure sfiorato. Ma ogni tanto tornano alla mente le possibilità perdute: Katz’s Delicatessen intravisto salivando da un pullman o il pastrami di Dickson’s al Chelsea Market, al quale è stato preferito un dimenticabile sushi di Lobster Place. E Schiller’s Liquor Bar, e Soto, e The Breslin, e Yasuda, e… Ma questi sono rimpianti. E per i rimpianti, per quanto piccoli e leggeri, il tempo si trova sempre.


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