
di Raffaele Mosca
“Tutto deve cambiare perché tutto rimanga uguale”. E’ la celeberrima frase che ci viene in mente nel corso di questo evento quasi gattopardesco, in cui aristocrazia, altissima borghesia e jet set del vino italiano celebrano il sodalizio tra l’arte – barocca e contemporanea – e un mito anomalo dell’enologia italiana. Il tutto nella cornice d’immortale bellezza di Palazzo Taverna, uno dei tesori nascosti della città eterna.
Le parole di Tomasi di Lampedusa cambiano ordine di fronte a San Leonardo di Tenuta San Leonardo: in questo caso nulla è cambiato, tutto è restato uguale e, al variare delle stagioni, l’apparente immobilismo – che in realtà è una riluttanza agli stravolgimenti tipica delle dinastie d’antan – si è rivelato una scelta vincente. Oggi questo vino rappresenta uno stile quasi “estinto” di taglio bordolese: “ it’s an Italian rock in a sea of change” diceva Jancis Robinson. E, nel momento in cui le mode che come tsunami hanno travolto il vino italiano retrocedono rapidamente, diventa più che contemporaneo: quasi capace di indicare una via maestra per il futuro.

Il dato saliente di San Leonardo 2020 è quello relativo all’ alcol: solo 12 gradi e mezzo dichiarati in retroetichetta, in barba ad un’annata che in molte parti d’Italia è stata rovente. Lo stesso valore accostato ad altri tagli bordolesi italiani sembrerebbe una forzatura, perché è innegabile che chi ha seguito questo filone abbia cercato – salvo eccezioni sparse qua e là – di accontentare gli amanti dei muscoli, del calore e della dolcezza. Ma San Leonardo è così anche perché proviene da un luogo insolito.“ Una valle stretta del Trentino, quasi un canyon, dove il sole passa veloce. Le viti (principalmente piantate a pergola, ndr) ricevono luce sufficiente per sviluppare una perfetta fotosintesi, ma sono protette dall’eccesso di calore” spiega Anselmo Guerrieri Gonzaga.
La 2020 esce con due etichette diverse: quella classica per 50.640 bottiglie e un’altra speciale per sole 999, realizzata nell’ambito del progetto Arte a San Leonardo, quest’anno portato avanti da Linda Fregni Nagler. Un’artista che ha la consuetudine di trarre ispirazione dagli archivi e che, nel suo soggiorno in azienda, non si è lasciata incantare dalla natura, ma da uno spazio interno alla tenuta, ovvero il museo delle attrezzature agricole messo in piedi da Carlo Guerrieri Gonzaga per recuperare molti oggetti che altrimenti sarebbero spariti.
L’immagine di un vecchio colmatore per botti disegnato da Leonardo Da Vinci fa da preludio ad un vino di media intensità cromatica, che sprizza freschezza vegetale e pepata, seguita da toni più complessi di sottobosco, cuoio, mirtilli dolci e una punta di legno di cedro. Rispetto alla 19’ assaggiata l’anno scorso è tutt’altra storia: agile, scorrevole, il tannino è già soffice; il frutto, dolce ma non troppo, prende la scena in chiusura, abbinato a qualche rimando erbaceo e floreale. È relativamente leggero e abbastanza immediato: si potrebbe dire più adatto al consumo a breve termine di altre annate. Ma i vini fatti in questo stile sottrattivo non è detto che invecchino male. Anzi spesso compensano la minore tridimensionalità con una tenuta sorprendente: non esplodono, non raggiungono i picchi delle grandi annate. Ma rimangono impassibili per decenni… un po’ come rocce tra moti ondosi che cambiano continuamente.
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