di Luciano Pignataro
A 60 anni suonati ha deciso di fare il suo primo stage da Yannick Alleno al tristellato parigino Ledoyen. “In realtà- racconta Martino Ruggeri sous chef del grande cuoco francese- abbiamo imparato più noi da lui”. Lui è Salvatore Tassa, classe 1956, appassionato di estrazione a freddo, che aveva bussato alla porta del ristorante sugli Champs Elysees per approndire questo tema.
“Noi baby boomer l’estate la trascorrevamo vicino casa, chi al mare e chi, come me in campagna. In effetti, l’estate significava semplicemente non andare a scuola. Ricordo il caldo, i profumi della terra assolata, il gusto della frutta, degli ortaggi e delle verdure che si è purtroppo quasi completamente perso”.
Salvatore, come sei arrivato ai fornelli?
“Una storia lunga che parte da lontano. Nasco in Inghilterra perché mio padre Barnaba era stato trasferito lì dopo essere stato fatto prigioniero in Africa durante la seconda guerra mondiale. Fu fortunato perché, assegnato alla tutela di un Lord, si fece ben volere proprio per la sua predisposizione a curare bene le piante e il giardino. Dopo la fine dei combattimenti si sposarono e io nacqui lì”.
Poi il rientro in Italia alla fine degli anni ‘50
“Si, rientrammo ad Acuto nel 1959 e l’anno dopo mio padre aprì un punto di ristoro. Praticamente, appena iniziai a crescere ho subito iniziato a dare un mano, bisognava darsi da fare. Siamo a due passi da Fiuggi, ma all’epoca si girava solo per lavoro, non esisteva il turismo di massa. Lavoravo e studiavo, proprio come tutti i miei colleghi che hai intervistato, se ci fai caso nessuno ha avuto una adolescenza spensierata. Ma allora non pesava a nessuno, l’Italia era sicuramente più felice di adesso”.
Quali studi?
“Dopo le medie mi iscrissi all’istituto d’Arte, poi presi il diploma di geometra e mi iscrissi ad Architettura che abbandonai dopo una ventina di esami. Dalla macchina del caffè della trattoria passai ad aiutare mia madre dopo la morte di mio padre. Era un cucina semplice, si facevano le fettuccine, si usava il forno a legna”.
Un po’ quello che adesso ti diverti a fare a Nù, la trattoria italiana che hai aperto sotto Le Colline Ciociare.
“Si, un ritorno al passato che non è passatismo, ma la volontà di ribadire che il nostro patrimonio è questo”.
Detto da te che sei considerato un innovatore anarchico…
“Essere innovatori non significa per forza fare cucina gourmet. Tu citi spesso il mio piatto dei ravioli d’aglio in brodo di mele. Una ricetta a metro zero, perché la discriminante è il prodotto oggi. Che noi dobbiamo vedere senza paraocchi ma al tempo stesso senza dimenticare come è stato cucinato sino a quando non siamo arrivati noi”.
Non hai fatto ristorante gourmet ma nel 1996 ti è arrivata una stella della guida Michelin che conservi ancora. Com’è accaduto?
“In modo molto semplice. Il 2 gennaio 1988 aprii le Colline Ciociare, ero un autodidatta, ma avevo mandato a memoria tanti testi dei cuochi francesi che mi hanno trasmesso la tecnica, perché questa è la differenza con la cucina tradizionale italiana che si faceva nelle case. Grandi sapori anche senza l’ausilio della tecnica. Imparando da loro ma con i nostri prodotti non c’è partita per nessuno”.
E dunque come è arrivata questa stella?
“In un modo semplice. All’epoca non esisteva internet, le guide dettavano legge. Iniziai a scrivere ai curatori delle guide, nel 1989 subito venne Veronelli e scrisse di me. Dopo di lui tanti altri giornalisti e infine venne l’ispettore della Michelin. Ricordo ancora che si presentò dopo e che mangiò una terrina di ovuli con gelatina di vin santo, altro che caviale, chips e foie gras.”
Ti ha cambiato la stella?
“Oggi è molto più importante averla. Certo era un bonus importante nel 1996, ma comunque noi abbiamo sempre dovuto lavorare per portare la gente qui, non è che ad Acuto ci si passa come a via Condotti”. Certo un passo in più l’avevamo, l’hotellerie non era quella della trattoria, nel 1994 il Gambero Rosso ci mise al primo posto nel Lazio”.
Cosa è cambiato da allora?
“Tutto. La gastronomia italiana è sicuramente migliorata moltissimo ma non vedo più il pubblico gourmet di una volta. Ma il problema più grande sono i giovani. L’anno scorso uno stagista vedendo che facevo i ravioli mi chiese: perché non comprarli congelati, oggi sono ottimi”.
E tu?
“Ti puoi immaginare. Escono da queste scuole come polli di batteria senza avere un rapporto con la materia e i prodotti e non capiscono che proprio questo è il motivo delle loro difficoltà. Sono affascinati dalla tecnica, pensano di risolvere tutto stupendo il cliente mentre la gente vuole in primo luogo il sapore, non lo stupore. Non capiscono neanche guardando i grandi del mondo cosa stanno facendo in tutti i paesi: sono figli di una cultura televisiva che da una visione falsa del mestiere e che non favorisce la giusta agricoltura.”.
Un allarme lanciato anche da Pierangelini di recente a Venezia. Riferito anche all’alta ristorazione.
“Essere cuoco non vuol dire fare cucina gourmet o lavorare nell’alta ristorazione. Significa anzitutto studiare il passato e poi, se hai davvero creatività, leggere i tuoi prodotti come nessun altro può fare. Che vengo a fare ad Acuto se trovo le stesse carni e gli stessi ortaggi di città?”.
Nella tua vita hai girato tanto.
“Si viaggiare è un altro elemento che ti arricchisce. Visitare i mercati, i porti. Ho lavorato per qualche stagione in Messico di recente, poi anche visite negli Stato Uniti”.
Qual è la tua figura di riferimento?
“Fredy Girardet”.
Programmi per l’immediato futuro?
“Tanti, ripartiamo con le Colline Ciociare con il nuovo menu e apriamo a Zurigo un ristorante di cucina italiana, così giusto per non farmi mancare niente”.
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