MASSERIA FRATTASI
Uva: aglianico
Fascia di prezzo: da 5 a 10 euro
Fermentazione e maturazione: acciaio
Qui si leggono soprattutto considerazioni sulla comunicazione del vino e sul distacco fra il mondo autoreferenziale di parte del circo mediatico e il vissuto della gente. Poi c’è l’invito a trovare la naturalità del consumo urbano atteso che la naturalità rurale è ormai solo nella testa degli ideologici pazzi. Tutto per un rosato
Ormai è chiaro, dall’entusiasmo della notte a Fabbrica dei Sapori i cui numeri ci sono letteralmente sfuggiti di mano come mai prima era successo, che l’interesse per il rosato è in grande crescita, spinto da una vendemmia assolutamente favorevole a questo segmento di vini. Tutti, dai produttori agli operatori, sono rimasti spiazzati da questo entusiasmo del grande pubblico: probabilmente il motivo è da ricercare nel fatto che il rosato risponde al bisogno di un approccio al vino di massa sollecitato dai media e dalla moda anche da parte di chi non è dentro pienamente questo mondo, ma semplicemente ne ha sentito parlare.
Mi sono convinto ancora di più di come, nel corso di questi anni, il circolo vitivinicolo italiano si sia avvitato su se stesso senza avere più la capacità di comunicare e di proporsi serenamente alla grande massa dei consumatori come avveniva prima della rivoluzione degli anni ’90. Intendiamoci, non bisogna buttare il bimbo con l’acqua sporca, nel senso che l’approccio consapevole, i corsi Ais, i master di Slow Food e Gambero Rosso, le centinaia, migliaia, di iniziative che ogni anno si svolgono in tutta Italia hanno sicuramente fatto bene al vino italiano e favorito una cultura in grado di essere all’altezza di quella di altri paesi dove pure questo salto di qualità è stato fatto, penso sopratttutto agli anglosassoni.
Ma è come però se ad un certo punto questo mondo fosse stato incapace di andare oltre la cerchia di coloro che avevano la passione, il tempo e la voglia di approfondire il discorso, perdendo quella immediatezza di approccio, la naturalità del suo consumo che ha sempre caratterizzato i latini, improvvisamente la grande massa dei consumatori si è sentita estranea, quasi intimidita, da questo circo, come potrebbe esserlo di fronte a qualsiasi specializzazione culturale. E invece il vino è sempre stato per gli italiani qualcosa di simile al calcio, un argomento di cui tutti si piccavano di capire e di parlare senza problemi. Alcuni successi sono stati ostentatamente ignorati e neanche registrati e la crisi ha accentuato il fenomeno, già abbondantemente trattato da Gramsci per altri argomenti, del distacco fra il ceto dirigente e intellettuale di questa impresa culturale e la gran parte della massa dei consumatori: mentre il dibattitto si avvita su autoctoni e internazionali, lieviti indigeni o selezionati, ed estremizzazioni di vario tipo, la rappresentazione di questo mondo viene assunta dal Tavernello o, ai piani alti, da Luca Maroni che sta al vino come Berlusconi alla politica per capacità di capire gli umori e comunicare. Questa crasi mi è apparsa sempre più evidente e pericolosa proprio con la frequentazione della rete dove ci sono tante cose eccellenti ma è quasi del tutto assente il problema del rapporto con quello che realmente si muove nella società, forse perché ormai siamo talmente immersi nell’onanismo individuale che del prossimo ci frega poco o nulla se non nella misura in cui ci è istintivamente simpatico e antipatico. La società moderna capitalistica ci ha riportato alla psicologia delle scimmie. Sicché come i monaci di fronte alle invasioni barbariche, ci si rifugia in piccoli cenacoli senza porsi il problema che facendo in tal modo il governo dei processi viene delegato ai professionisti della finanza e ai ragionieri dei bilanci aziendali.
Vivo, come i miei colleghi impegnati nella stampa e nei quotidiani, quasi uno sdoppiamento, un linguaggio generalista quando si usa uno strumento di largo approccio, uno sempre più esoterico quando si è nel proprio intimo della rete, solo apparentemente un mare aperto, in realtà piccolo porticciolo psicologico in cui rifugiarsi perché fuori sono tutti brutti e cattivi. Non a caso con questo strumento sono proprio le persone timide ad esprimersi meglio e in modo più disinvolto, ieri con la scrittura, oggi con i blog. Ma, ecco il punto, la diversità di linguaggio implica anche contenuti diversi? La tecnica di comunicazione, in poche parole la scrittura, implica anche la necessità di contingentare la sostanza di quello su cui si parla? Il problema si sta accentuando sempre di più, mi accorgo cioé come le persone non esperte che mi scrivono e mi fermano fanno domande e hanno esigenze di approccio al vino assolutamente diverse dai temi in cui questo ambiente ormai è inchiodato da qualche anno senza sbocco. Alle degustazioni e alle manifestazioni, quasi sempre le stesse facce, come i famosi carri armati di Mussolini che giravano l’Italia. Un esempio: la diatriba ideologica fra vitigni autoctoni e vitigni internazionali è assolutamente sconosciuta ai più. Oppure, nessuno ha capito realmente cosa sia successo a Montalcino. Eppure tutti sanno le scelte tecniche dell’allenatore della nazionale di calcio e sanno valutare la perfomance di un giocatore. Perché il vino che era naturalmente parte del patrimonio culturale degli italiani proprio come il calcio è diventato argomento per pochi ed estraneo al profondo sentire della gente proprio mentre non se ne è mai parlato tanto in tv, nei giornali, ovunque insomma? Perché gli esperti di vino appaiono dei paleontologi a cui si ha paura persino di chiedere un consiglio? Una delle cause è sicuramente l’assurda ideologizzazione che si è fatta di questa materia, appesantendola di significati etici assolutamente estranei alla realtà produttiva e commerciale. Si è confuso il posizionamento di un’azienda con una scala di valori delegando al vino aspettative e risposte che non può dare, per quanto antica e nobile sia l’arte della vinificazione: spesso i più arguti commercianti sono proprio quelli che si vestono da contadini recitando il ruolo di duri e puri. I produttori non possono dare risposte esistenziali e spirituali, ma un vino capace di piacere. Se lo fanno sono bravi, altrimenti non valgono. E’ questa linea retta e corta che si è smarrita nelle fumisterie ideologiche e specialistiche di questi ultimi anni e la risposta non è il ritorno all’esaltazione bucolica di chi suda in vigna, ma nella valorizzazione di chi sa affrontare in maniera seria e professionale il mercato globale.
Questo non significa perdere e smarrire la complessità del vino, le sue emozioni, ma inquadrare ciascun segmento di questo mondo nel giusto contesto e tornare ad una nuova naturalità che non può più essere quella rurale del vino alimento bensì quella urbana del vino come oggetto di piacere. Il rosato, per tornate all’argomento di queste settimane, ancora non ha vissuto questa crasi, per le sue qualità organolettiche mette insieme i monaci del biodinamico e gli astemi, per la prima volta queste due figure estreme tornano ad essere fianco a fianco in un banco di degustazione, non c’è sussiego e neanche timidezza, ma piacere di bere, scoprire. Il rosato in realtà è il vino dei grandi produttori di rosso costretti sempre più a fare bottiglie sopra le righe per soddisfare il mercato internazionale, ed è il vino anche dei critici che con questi bicchieri si rilassano, è l’auto scoperta che restituisce a tutti la piacevolezza del vento sulla pelle. Lo sforzo da fare è riportare anche gli altri segmenti a questo livello condiviso perché solo la nuova naturalità di approccio al vino è la risposta da dare alla attuale crisi di posizionamento e sbloccare le eterne infinite discussioni (tra poco arrivano quelle sulle guide). Oltre ad un altro appuntamento autunnale, sarà il 2009 l’anno del ritorno alle origini grazie alla disponibilità di Fabbrica dei Sapori e di quanti ci sono vicini in queste iniziative realizzate sinora, vale appena la pena ricordarlo, senza danaro pubblico. Il rosato di Pasquale Clemente, la cui azienda è una delle punte di eccellenza nel Taburno e in Campania è piacioso, fruttato, maroniano per restare in tema, ha dalla sua però la freschezza del vitigno, alcol e una certa struttura in grado di sostenere gli abbinamenti, la bottiglia si beve tutta. Magari sulla zuppa di pesce amalfitana.
Sede a Montesarchio. Via Torre di Varoni, 15 Tel. 0824.834392 www.masseriafrattasi.it info@masseriafrattasi.it Enologo: Renato Ciaramella. Ettari: 7 di cui 4 di proprietà. Bottiglie prodotte: 30.000. Vitigni: falanghina, fiano, moscato, aglianico
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