di Adele Elisabetta Granieri
Per storia e tradizione vitivinicola, il Salento può essere considerato una delle culle dell’enologia mondiale. La coltivazione della vite, attestata già intorno al 2000 a.C., è stata sempre parte integrante dell’economia della regione, tanto da connotarne, già all’epoca, il particolare paesaggio. Brindisi, assieme allo scalo di Egnatia, costituiva uno dei porti vinicoli più importanti, un punto nodale del commercio internazionale, da cui venivano esportati vini di ogni tipo.
La storia vitivinicola del Salento non si può raccontare prescindendo dai rosati da Negroamaro e dalla tradizionale vinificazione “a lacrima”. Già i romani conoscevano il vino ottenuto da quel mosto vergine che Plinio chiamava “protropum” e che Columella definiva “mustum lixivium”, il primo mosto che usciva spontaneamente per la compressione delle uve, che veniva mescolato al miele per preparare il “mulsum”, bevanda molto apprezzata all’epoca, tradizionalmente offerta ai viandanti. Testimonianze della vinificazione “a lacrima” si trovano già nel «De Naturali Vinorum Historia» di Andrea Bacci e negli scritti di Sante Lancerio, “bottigliere” di Papa Paolo III Farnese.
Nei secoli successivi si continuò a produrre lacrima semplicemente perché facile da ottenere e di pronta beva. Il primo mosto, che fuoriusciva dal palmento dove erano state collocate le uve appena raccolte, fermentato separatamente, è stato a lungo la base del rosato sfuso, denominato “lagrima”, molto apprezzato nel Salento per l’autoconsumo delle famiglie dei contadini e della borghesia rurale.
Verso la metà del secolo XIX, la viabilità dei centri viticoli, con il collegamento delle strade ferrate e l’attività dei porti di Brindisi, Taranto e Gallipoli, favorì una larga esportazione di uve e di vini, che giovò molto alla diffusione del vigneto. L’avvento della fillossera, accentuò questa tendenza poichè la Francia, prima ad essere stata danneggiata, si rivolse alle regioni meridionali ancora immuni da questo flagello. Il Salento potè esportare, così, ingenti quantitativi di vino, ma i rosati erano comunque poco richiesti ed il loro consumo era limitato alle sole aree di produzione. Con la “Guerra delle Dogane” tra Italia e Francia, che vietò l’importazione dal meridione, e l’arrivo della fillossera in Italia, la viticoltura della regione subì una crisi gravissima.
Il grande storico rilancio del rosato pugliese avvenne nel 1943 ad opera di Piero e Salvatore Leone De Castris. Sul finire della guerra, il generale americano Charles Poletti, commissario per gli approvvigionamenti delle forze alleate, chiese una grossa fornitura di vino rosato, e fu così che nell’ azienda di Salice Salentino, fu confezionato in bottiglie da birra chiuse da tappo metallico, un rosato a base di Negroamaro, le cui uve provenivano dal feudo Cinque Rose. Il generale voleva un vino dal nome inglese, e così nacque il “Five Roses”. Personaggi che hanno fatto la storia dei rosati salentini, come Severino Garofano, il più grande interprete del Negroamaro, fautore della rinascita del vino del Sud, e Mino Calò, tornato all’azienda familiare dopo gli studi di enologia ad Alba per imbottigliare, con caparbietà e lungimiranza, le prime bottiglie.
Il rosato rappresenta, così, la storia della grande civiltà del vino salentino, che ha fatto assurgere il Negroamaro a simbolo di riscatto: da umile vino da taglio utilizzato per dare corpo alle bottiglie del Nord, a protagonista indiscusso dell’enologia di qualità. È un vino che invoglia a sollevare il bicchiere all’indirizzo di persone felici, un inno alla gioia.
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