di Giulia Gavagnin
Una sera alcuni mi hanno chiesto a bruciapelo: qual è per te un vino “rock”? Non ho avuto esitazioni, anche se a questo vino non ci pensavo più da mo’. Perchè è esaurito, ormai introvabile, prodotto in quantità risicatissima, e se ne parla poco, pochissimo, forse perché il suo deus ex machina è politicamente scorretto, nato in direzione ostinata e contraria, che se fosse allineato e caritatevole tutti gli stenderebbero tappeti persiani con seguito di odalische danzanti.
Il Rosantico di Bressan è il vino italiano più rock che ci sia, perché ha beat, sound, cuore, geometria e risplende come un diamante rosa in un letto di zirconi, di pacchi colossali che vogliono essere ma non sono, di rosatelli insipidi, ma anche di bianchi Collio tutti uguali, dove c’è la mandorla se è friulano, la banana se è sauvignon, la mela e la pera se è pinot grigio. Senza scampo. Il Rosantico di Bressan è rock perché è unico, è unico il terroir che è arenaria e fossile di particolare permeabilità (tecnicamente si chiama flysch), unico il vitigno, che è moscato rosa pressochè introvabile, unico il produttore che potrebbe smerciare come DOC ma siccome il disciplinare lo infastidisce fa IGT, che è uscito dal consorzio perché annoiato, che potrebbe certificare biologico e invece non lo fa perché non ha tempo per correre appresso ai certificatori.
Chi non conosce Fulvio Bressan lo appella come “contadino”, nel senso più deteriore del termine. In realtà, contadino è certamente, ma “illuminato”. La sua famiglia coltiva i campi da nove generazioni, perlopiù sotto il vessillo dell’aquila bicipite, Gorizia è stata annessa all’Italia nel 1921. Suo padre Nereo trotterella ancora per i campi, cavalca il trattore, si sveglia di buon’ora tutte le mattine. La vigna è stata la sua vita, quando le campagne si svuotavano per ingrassare il proletariato urbano, lui faceva il macellaio nell’isontino per campare, poi si sfilava il grembiule e correva in campagna. Vendeva le uve alla cantina sociale, poi con Fulvio c’è stato il cambio di passo. Liceo classico a Gorizia, psicologia clinica a Trieste, studi che lo hanno determinato all’unicità in quel suo modo non banale.
Però, tra un esame e l’altro andava a Bordeaux a studiare enologia, dalla Francia ha portato le barbatelle del pinot nero che insieme a quello di Flavio Basilicata, deus ex machina de Le Due Terre, rappresenta la gemma nascosta del vino friulano (“lui però è più mago di me, deve vendemmiare prima perché dove sta lui piove sempre” dice Fulvio con estrema umiltà), perché il pinot nero –si sa- fuori dalla Borgogna non sai mai cosa ti può dare, e il Friuli ha caratteristiche ampelografiche un tantino differenti.
Oggi ha portato l’azienda a venti ettari vitati e cinque in attesa di diventare produttivi. E a produrre un decimo di quello che la vigna potrebbe rendere se Fulvio fosse venale: trentacinquemila bottiglie, se tutto va bene, perché in alcune annate il numero può essere “zero” se le uve non raggiungono lo standard previsto.
Ma lui, appunto, è un “contadino” che fa solo quello che gli suggerisce il suo talento e la profondissima conoscenza dell’enologia.
Detesta a tal punto i vini “naturali” (Radical chic, li chiama) da aver inibito, durante un Vinitaly, l’assaggio dei suoi rossi a un adepto delle nuovissime tendenze che sfoggiava una t-shirt con sopra scritto “I love volatile”: “te lo do solo se sei omosessuale, allora puoi. Volatile a casa mia è un difetto”.
Per raggiungere questi risultati di indistinguibile purezza e personalità il segreto è nella botte, e credo che nessuno come Fulvio Bressan conosca così profondamente l’impatto di ogni singolo legno sul vino.
Non usa mai rovere nuovo, le botti vengono pulite più volte con acqua di pozzo e sale, una mistura alchemica da apprendista stregone.
Il legno deve essere rigorosamente non tostato.
Le botti di ciliegio, devono essere di ciliegio selvatico, non normale, “perché questo ha le fibre più larghe di otto volte rispetto a quelle del ciliegio selvatico e quindi ossidano il vino”.
Poi c’è ciliegio selvatico e ciliegio selvatico. Mi mostra una botte particolarmente scura: “questo è cresciuto vicino al mare, ha le fibre ancora più strette: l’esito sarà ancora diverso” . “Impressive”, direbbero gli inglesi.
“Non esiste vino alternativo. Il vino è di quattro tipi. Bianco, rosso, bon e cativo”.
Ma c’è il Rosantico, Fulvio! Cos’è? “né bianco né rosso ma me par bon!”.
Ho incontrato Fulvio tra un lockdown e l’altro. Tra Pignoli e Schioppettini già noti agli uffici, Verduzzo e Carat pure, il Rosantico è stato uno squarcio nel buio.
Di moscato rosa ce n’è poco in Friuli, si coltiva soprattutto in Trentino Alto Adige, sembra sia stato portato dalla Sicilia dal ceppo dei Borboni che si imparentò con gli Asburgo. Ha elevata gradazione zuccherina, subisce perlopiù appassimento. Questo è un moscato rosa diverso, unico. L’annata 2015 è stata prodotta in 3.000 bottiglie dopo tre anni in botti di pero selvatico, fermentazione sulle bucce prodotta da lieviti indigeni. Inebria per il naso di petali di rosa, cui seguono resina e ginepro. Fiori e balsamo. Solo a seguire emergono la buccia di pompelmo rosa, il lampone disidratato e un vaghissimo ricordo di Campari, ma sarà solo perché siamo antichi bevitori. E poi il ferro, caratteristica di tutti i vini di Fulvio, Iron Man.
Piace da pazzi ai giapponesi, “gente a cui non racconti le favole come qua”, figurarsi se se ne trova ancora in giro.
“Lo abbinano ai loro piatti di sushi, una volta mi hanno portato in uno dei primi tre ristoranti di Tokyo, io gli ho detto che il sake era perfetto, ma non questo..”. Credo che ne capiscano, invece, questi giapponesi, di prodotti lussuosi (e lussuriosi). A questo punto, però, siamo costretti ad attendere –con trepidazione- la prossima annata in rosa.
Via Conti Zoppini, 35
34072 FARRA D’ISONZO (Gorizia)
Friuli – Italy
Tel. 0481 888 131
www.bressanwines.com
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