di Virginia Di Falco
Lasagna a Roma. Tutto parte dalla richiesta di una bambina ex inappetente che desidera fortemente una lasagna. E alla quale il cuore non sa dire di no.
Non ho voglia di mettermi ai fornelli: è settembre e fa ancora molto caldo. Lancio il sasso nello stagno di Facebook. Chissà che non arrivi un suggerimento originale.
Non ho molte idee. La prima lasagna che mi viene in mente è l’ultima più buona che ho mangiato: alla Tavernaccia, dove la fanno a regola d’arte e la ripassano pure nel forno a legna. Ma possibile che in tutta Roma sia quello l’unico riferimento?
Penso anche alla lasagnetta ”del Belli” di Armando al Pantheon che potrebbe fare al caso mio, ma il calendario di Claudio Gargioli la prevede solitamente il sabato.
Anche quella di Colline Emiliane non è niente male. Ma la fanno solo di domenica.
Mi riaffaccio su Facebook. Al netto del consiglio un po’ scontato che quella-più-buona-è-quella-di casa, mi colpisce il suggerimento di un appassionato che non conosco di persona. In maniera convinta però mi consiglia un ristorante al Flaminio che, scrive «se porti la tua teglia di casa te la prepara lì dentro, cotta o cruda». Confesso che l’idea piuttosto d’antan di portare da casa il recipiente mi riporta alla mente i racconti delle teglie che i romani portavano ai fornari e dunque stuzzica molto la mia curiosità.
Decido di prenotare per cena, chiedendo esplicitamente la lasagna. «E’ già finita, signora: ormai se ne parla domani». Figuriamoci se mi arrendo. Prenoto per pranzo il giorno successivo, specificando che vado lì proprio per la lasagna, a scanso di equivoci.
Il giorno dopo prendo la bambina a scuola, e con il combinato disposto di caldo, pioggia, ennesimo sciopero dei mezzi, corsa in metro, corsa in tram, navigatore di Iphone imballato, riesco ad arrivare con soli 15 minuti di ritardo al ristorante-pizzeria-tavola-calda Trentino, zona Flaminio, in via Sacconi, alle spalle di piazza Mancini.
Scopro subito che Trentino non fa riferimento alla regione ma al cognome dei titolari e – soprattutto – scopro che il posto, ancorchè abbastanza ben messo e, a occhio, ben frequentato, è in realtà un self service. Orrore. Ma non ho neppure il tempo di esternarlo questo orrore. Mi presento, chiedo scusa per il ritardo e chiedo della mia, della nostra, della sua lasagna. «MA SIGNORA LA LASAGNA E’ FINITA». Come finita. Io l’ho prenotata. E’ un attimo. Il panico. Le lacrime della bambina. Poi la rabbia. E, lo ammetto, la sete (e la fame) di vendetta. Maledizione a Facebook e ai consigli modello Trippa(dvisor). Ah. Ma la pagheranno-altrochè-se-la-pagheranno.
Ma ecco avvicinarsi il titolare, che dalla cassa ha seguito tutte le fasi. Dal mio arrivo trafelato alla ferale notizia della lasagna che non c’è. Con uno scatto francamente inaspettato comincia a rimproverare qualcuno in cucina, chiama il responsabile e chiede spiegazioni, prendendo le mie difese. Vedo uscire a quel punto un ometto che chiede scusa e dice che – se voglio – lui la lasagna me la prepara seduta stante. Devo solo pazientare mezz’ora.
Bene. Ve lo dico. La mezz’ora più utile delle mie ultime cento recensioni. Perché mi sono seduta e nell’attesa ho visto funzionare sala, banco e cucina di un esercizio che sta lì, con notevole successo, da qualche decennio. Un posto vero, reale, dove si lavora per uno stipendio, puntando dritti alla soddisfazione del cliente e non a quella del pubblico virtuale attraverso una manciata di like. In una dimensione relazionale che è soprattutto di quartiere, con persone che vivono lì o che lì lavorano. Come la coppia di vecchietti che mentre paga soddisfatta ringrazia il proprietario per quel pollo con le patate che ha dato una svolta positiva alla giornata uggiosa. O come la persona che me l’ha suggerita, con il piacere di condividere un posto dove si sente a casa.
E tutto questo fuori da qualsivoglia circuito – e circo – mediatico. Fuori da Facebook. Figuriamoci dalla cerchia gastrofighetta.
Arredamento piuttosto classico dei ristoranti anni Settanta, un lungo banco con personale gentile, tavoli quadrati con comode sedute tipo poltroncine. Prendi il vassoio già apparecchiato e scegli: pasta al sugo di pomodorini freschi, tonnarelli all’amatriciana, trippa, parmigiana, tante verdure scaldate e ripassate, patate fritte o al forno, l’arrosto, le fettine panate, gli involtini con i piselli. E la sera c’è pure la pizza nel forno a legna.
E poi c’è la lasagna. Preparata ogni giorno e che ogni giorno finisce, perché tutti la vogliono, prima delle 14.00. Una porzione costa 4 euro e 50.
E che ad un certo punto arriva anche a noi, con la crosticina calda fumante, solo un po’ “seduta” perché, naturalmente appena fatta non ha avuto il tempo di assestarsi nella teglia, prima di essere porzionata. Ma buona, proprio buona, quasi come quella di casa. Una sfoglia consistente e callosa, il sugo di pomodoro delicato, la farcitura ricca di carne macinata e mozzarella, ma ben dosata tra gli strati e nel complesso non inutilmente ‘formaggiosa’. Insomma, quel che si dice una bella scoperta. Una lasagna vera in un posto vero.
E la domanda finale – anche quella vera – è sempre la solita: torneresti a mangiarla? La risposta è sì. Torneresti a riaccompagnarci la bimba? No. Perché la lasagna le è piaciuta tanto ma dice che ci tornerà da sola: ormai è grande, sta alle medie. E senza di me non rischia di arrivare tardi.