Roma, ristorante Fase di Federico Salvucci

FASE Restaurant Roma, lo chef Federico Salvucci

FASE Restaurant Roma, lo chef Federico Salvucci

FASE Restaurant – Cucina spontanea
Via Muggia, 14 Roma (Prati)
Tel.
06 241 5763
Aperto: Pranzo e cena, dal martedì al sabato. Domenica solo a pranzo.
Chiuso: Domenica sera e lunedì
faserestaurant.it

di Virginia Di Falco
Contravvenendo alle regole sulle nuove aperture ho deciso di provare questo ristorante, aperto a Prati da poco più di 6 mesi. Ancora nessuna recensione significativa, zero passaparola, profilo social non aggressivo.
Raccolgo qualche informazione in rete sullo chef, memorizzo nelle foto pubblicate su Instagram i fiori freschi al tavolo e leggo con attenzione il menu online (sito fatto molto bene, con descrizione dei piatti e prezzi, vivaddio).

Anticipo che FASE mi è piaciuto molto: l’impostazione, la cucina, la proposta dei vini, la sala, la squadra.
In uno spazio non grandissimo i tavoli sono ben distribuiti, l’ambiente elegante-minimal, quasi nordico, come usa adesso. Al tavolo fiori freschi bianchi, di lato la cucina a vista protetta da grandi vetrate, dove lo chef e la sua piccola brigata sono concentrati sul gioco di squadra.

Sommelier e ragazzi in sala sono accoglienti e preparati. C’è il sorriso, c’è attenzione, c’è premura. Ma c’è anche da risolvere un problema (e spero lo facciano presto perchè è davvero l’unico difetto che ho riscontrato): urge l’insonorizzazione. Le chiacchiere (sacrosante) dei tavoli si concentrano come in delle nuvole, si fermano a mezz’aria e non si riesce a fare conversazione.

Lo chef si chiama Federico Salvucci e non ha ancora compiuto 30 anni. Si è fatto le ossa giovanissimo proprio in questo stesso locale, quando era una osteria tipica, cominciando quindi a spadellare romano. Poi però ha studiato, si è diplomato all’Alma, ha fatto uno stage importante da El Coq in Veneto e, una volta di nuovo a Roma, ha lavorato due anni con Riccardo Di Giacinto.

Diciamo subito che la sintesi tra imprinting romanesco e tecnica di scuola funziona bene in una proposta molto contemporanea: ci sono le suggestioni orientali, una grande apertura al vegetale, l’attenzione al mondo delle fermentazioni, ma tutti i piatti sono concreti, ben piantati a terra.
Il menu è diviso in 4 ‘fasi’, parola chiave per lo chef. Per ciascuna fase (antipasti dai 16 ai 18 euro; primi dai 16 ai 23; secondi dai 20 ai 26 e dessert, 10 euro) ci sono 4 portate contraddistinte da un ingrediente protagonista.

Al tavolo, intanto, l’amuse bouche dà un benvenuto frizzantino; il pane è buonissimo (viene da un forno del quartiere) così come l’extravergine in degustazione e i grissini fatti in casa. La focaccia viene servita con una nuvoletta di lardo.

L’antipasto carnivoro è un katsu sando, sandwich giapponese con cotoletta di maiale, qui preparato con pan brioche, cavolo marinato e salsa asian barbecue. Morso potente e goloso al tempo stesso.

Il piatto vegetale della Fase 1, invece, si chiama Radici e armonizza funghi, patate e tuorlo, con un delicato profumo di marsala. Infine, chi ama il crudo, apprezzerà freschezza e spontaneità del ceviche di sogliola.

Nella Fase 2 (primi piatti) ammetto di essere andata al sodo: amatriciana. Un po’ provocatoriamente, un po’ (credo) per togliersi dai piedi i talebani della ricetta originale, qui viene scritto sul menu «Non è un’amatriciana». La ricetta di Salvucci prevede infatti qualche goccia di aceto balsamico (questa non è una novità, lo sappiamo) e una base di scalogno. Com’è? A me e ai compagni di tavolo è piaciuta tanto. Mezze maniche dal punto di cottura indovinato, pomodoro solo un’ombra addolcito e pronto così ad accogliere la sapidità del pecorino e di un guanciale al quale si è fatto rilasciare sapore senza sfibrarlo o – peggio – rinsecchirlo.

Fase 3: molto ben eseguita l’anguilla alla brace, glassata con prugne fermentate e servita con cavolo cinese. Buono anche il piatto vegetale agli asparagi, con stracchino e misticanza, profumato di mandorla.

Per la chiusura suggeriamo di tornare ai classici, che fanno sempre bene all’anima, con la torta di rose, lievitato antico e tanto confortante.

Di questa cucina ci è piaciuto il tratto giovane, immediato, comunicativo ma senza improvvisazione. I piatti sono studiati e sudati, non il risultato di chi ha origliato qualcosa qua e là. Ancora studio, ancora ricerca, con i piedi ben piantati a terra e la barra dritta sulla gioia di chi si siede a tavola, non può che essere la strada futura.
Noi, intanto, aspettiamo i pannelli acustici e torniamo.


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