L’Osteria di Monteverde a Roma
Via Pietro Cartoni, 163
Tel. 06 53273887
Aperto a pranzo e a cena
Chiuso il lunedi a pranzo
www.losteriadimonteverde.it
di Virginia Di Falco
Siamo tornati giusto prima della chiusura per ferie all’Osteria di Monteverde, uno dei locali aperti poco più di dieci anni fa che diedero il via al fenomeno delle nuove trattorie della Capitale: sguardo curioso e attento alla bistronomia francese ma guai a chi ci tocca la carbonara. Per dirla in due righe.
Una formula che, tranne qualche deriva modaiola, ha funzionato bene a Roma per almeno una quindicina di posti ancora oggi molto validi, anzi validissimi. E che prima o poi, non appena vinco la pigrizia, metto insieme in un post.
Arredo minimale, tavolacci e sedie in legno scuro, qualche pezzo di modernariato, piccola cucina a (semi) vista. Fuori, i tavoli sul marciapiedi.
L’atmosfera è quella di un’osteria di quartiere. Si apre a pranzo e a cena, servizio senza fronzoli, ma pronto a chiacchierare di piatti e prodotti; piccola carta con fuori-menu stagionali, legati al mercato. Non mancano mai i primi romani. Qualche etichetta non c’è, ma si viene avvisati in tempo: si sta lavorando alla nuova lista, compiti per le vacanze. Pane e dolci sono fatti in proprio.
Piccola polpetta di bollito, come benvenuto. Bene eseguita e accompagnata da pane (molto buono) e olio da olive itrane.
Tra gli antipasti un riuscito cotto e crudo di seppia e piselli, tecnica e sapore: funziona. Non male anche il pescato del giorno in versione estiva, con kefir e albicocche.
Gli spaghetti con i gamberi sono un filo sopra di cottura mentre il pomodoro finisce per vincere sul mare. Peccato.
Sazia e appaga la pescatrice in guazzetto, un classico che non si batte.
Bonus per i dolci, con un ottimo e godurioso tiramisù e il semifreddo alle mandorle, servito alla giusta temperatura e che sa davvero di mandorle, tritate finemente, le senti e le assapori.
Insomma, un posto dove si mangia bene, e dove col bere si soddisfa più di qualche curiosità. C’è la giusta atmosfera e allora i difettucci passano in secondo piano; si trascorre una serata in relax, anche grazie ai tempi di servizio, ben rodati.
Conto sui 35-40 euro.
Qui la recensione del 26 marzo 2014:
Diciamolo subito, per arrivare in questa post-osteria, come la definisce felicemente Antonio Paolini, conviene il taxi perché ogni spazio possibile e immaginabile per le auto è una chimera.
Superato questo ostacolo logistico, vi troverete, come è capitato a noi, in un locale caldo, accogliente, ricco di spunti nel bicchiere come nel piatto grazie alla perfetta intesa tra Fabio Tenderini in sala e Roberto Campitelli in cucina.
Lo stile è un po’ quello dei locali anni ’50, ma nei piatti si sente e come la rivoluzione gastronomica italiana dell’ultimo ventennio e alla fine, oltre ai classici romani, rimarrete stupiti dalle idee, dai guizzi e dalle combinazioni di una cucina giovane, di buona mano, a volte tecnica, sicuramente con ottime premesse per crescere. E, non ultimo, vale anche la pena di dire che siete in uno dei migliori locali per rapporto qualità/prezzo di Roma che non è una città, come è noto, che brilla da questo versante.
Proprio i classici sono forse i piatti più scontati. Buoni, ci devono essere, ma non è qui che dovete cercare il motivo di una visita.
Già del raviolo di ricciola con bottarga trovate per esempio l’esecuzione di una idea semplice ma efficace, bisogna lavorare per una sfoglia ancora più sottile per esaltare la freschezza del pesce, materia prima che qui viene trattata davvero bene, sino a pensare che il cuoco abbia soprattutto una mano marinara.
E’ invece in tutto il contorno di piatti e piattini, assaggi e assaggino che troviamo esplosione di sapori ben definiti, nessun pastrocchio, poche concessioni alla piacioneria morbidosa che insegue il facile ma annoiato consenso palatale.
Dalla trippa e fagioli all’animella glassata si discvela una cultura delle interiora che affonda le radici nella tradizione romana rivisitata per fortuna in modo moderno, competente e con tanta convinta passione.
Il piatto della serata per noi è stato il fegato di vitella: buona acidità a compensare la dolcezza.
Perfette le fritture.
Buoni pure gli apetizer di mare che hanno aperto le danze.
Finale soddisfacente con un dolce non zuccherino, in linea con le tendenze dell’alta ristorazione.
Insomma, trattoria? A me ha ricordato più i bistrò parigini. E, fatta l’esperienza della Chateubriand, mi sto ancora chiedendo se davvero la distanza tra questi due locali sia così siderale come vogliono le classifiche.
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