di Alfonso Sarno
Roccocò, goloso dolce napoletano che, secondo tradizione, conclude il pranzo dell’8 dicembre, il giorno dedicato all’Immacolata, per poi accompagnarli durante tutto il periodo natalizio fino all’Epifania che “tutte le feste porta via” dividendosi democraticamente i favori con mostaccioli, raffaiuoli, susamielli, struffoli e passatiempo.
Parola giocosa, avvolgente, azzeccosa con l’asperità delle c che si illanguidisce stemperandosi nella dolcezza del finale quasi a rimandare alle sue origini che, come per tanti altri esemplari cult della pasticceria campana trova origine negli ombrosi, nobili monasteri efficacemente raccontati da Enrichetta Caracciolo dei principi di Forino, monaca benedettina senza vocazione di San Gregorio Armeno ed autrice del libro autobiografico “Misteri di un chiostro napoletano”.
Luoghi dove le lunghe ore di preghiere in coro soccombevano, soprattutto durante le grandi solennità, alle esigenze dell’apparire, del fare bella figura con confessori e nobili parenti regalando loro sontuose guantiere di dolci adornate da bianchi fogli di carta ritagliata che ricordavano delicati merletti di Bruges. Furono le “Maddalene”, monache dall’abito domenicano ma con cingolo francescano – uno dei tanti esempi della fantasiosa creatività della vita religiosa del Regno delle Due Sicilie – che abitavano il Real Convento della Maddalena, vicino all’omonimo ponte sulla sponda del fiume Sebeto, ad inventarli.
Era il 1320 quando, da esperte pasticcere, sposando abilmente farina; mandorle e zucchero – attenzione! – nella stessa quantità; cedro e scorzetta d’arancia e pisto, un miscuglio di cannella, noce moscata, chiodi di garofano e coriandolo tipico della pasticceria della tradizione natalizia napoletana, a creare queste originali ciambelle che chiamarono roccocò, dal francese “rocaille” ovvero grotta, conchiglia per la loro forma tondeggiante.
Cotte al forno ed, in origine, dall’impasto duro, spaccadenti, d’ammorbidire nel vin santo proprio come i toscani cantuccini anche se l’optimum era dato dall’ambrato, corposo marsala o dai casalinghi vermut per variamente declinarsi con il passar del tempo assumendo consistenze e sapori diversi. Già, perché oggi i roccocò presenti tutto l’anno nelle pasticcerie non soltanto campane si offrono anche in versione morbida, ottenuta facendo cuocere l’impasto per alcuni minuti in meno. Un affronto, una eresia per i puristi che non ammettono varianti e che concordano con gli innovatori soltanto sulla necessità di non farli scurire troppo ma di sfornarli appena dorati; in caso contrario diventeranno durissimi, una pietra come popolarmente di dice quando i denti non riescono, nonostante gli eroici tentativi, a scalfirne la crosta. Così accanto ai tradizionali ecco apparire nelle vetrine delle pasticcerie quelli dall’impasto morbido, friabile, tipo frolla, ad onore del vero ugualmente ottimi, ideali per accompagnare la prima colazione o il tè del pomeriggio.
Ed a lui, al dolce inventato tanti secoli fa dalle monache della Maddalena è dedicata la prima edizione del “Roccocò Fest. Roccocò e Rococò” evento in programma, dal 12 al 14 dicembre, nel Castello di Arco Felice di Pozzuoli ed ideato dall’architetto Anna Russolillo nell’ambito della quinta rassegna del “Villaggio Letterario”. Tre giornate di immersione totale nella storia della grande pasticceria napoletana, arricchite da concerti, laboratori, degustazioni, visite guidate a monumentali edifici religiosi come la chiesa di San Raffaele, compiuta espressione dell’arte e dell’architettura del rococò e che culmineranno nell’assegnazione del Premio “Giovane pasticcere campano” riservato agli allievi degli istituti alberghieri del territorio.
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