E’ uscito in primavera il libro di Roberto Alajmo. Ma è bello leggerlo ora con l’arsura estiva, come le favole con la neve, da piccoli, era bello leggerli in inverno.
Un viaggio virtuale nella Sicilia dei riti pagani, dei paesaggi stravolti e bellissimi, dei sapori decisi e spesso incomprensibili.
Con una voce forte, uno stile asciutto, uno strano cinismo ottimista (sic) l’autore ci conduce nei posti meno noti dei luoghi più noti, partendo da Marsala e concludendo a Messina. Un popolo diverso e più complicato del resto degli italiani ma che secondo Alajmo ci aiuta a capire meglio il collasso di tutta la nazione. Soprattutto, aggiungiamo noi, il collasso del Mezzogiorno o almeno di quelle zone che hanno in comune «la bruttezza diffusa, il sistematico disprezzo per gli spazi comuni, l’incapacità delle persone anche migliori di fare rete e porre rimedio a queste distorsioni». Niente di meglio, allora che descrivere questa regione meravigliosa e maledetta andando oltre i luoghi comuni che vanno dallo scirocco al carretto siciliano.
L’autore ne rintraccia l’origine non per sfatarli, ma per dissacrarli con cinico piacere — sempre documentato. Come nel caso della famosa cassata siciliana, ritenuta da sempre il dolce simbolo della Sicilia. In realtà nasce come rimedio di un testardo rivenditore di frutta candita, tale Gulì, che alla fine dell’Ottocento decide di «imbaroccare» la tipica cassata al forno (questo sì un dolce di origini molto più antiche, fatto con pastafrolla ripiena di ricotta e cioccolato) per liberarsi delle decine di chili di zuccata e mandarini canditi che – invenduti – lo stavano mandando in bancarotta. E ne fece dono alla famiglia Florio, che a Palermo ospitava l’aristocrazia di tutta Europa e che si rivelò ben presto un formidabile quanto involontario veicolo promozionale.
Il viaggio parte da Marsala e Calatafimi, per poi proseguire verso Palermo la vera capitale di quella particolarissima arte che dà il titolo al libro: annacarsi. Che vuol (quasi) dire cullarsi. L’idea è «il massimo del movimento col minimo dello spostamento», dondolarsi per restare immobili. Da qui il mito della Rivoluzione Permanente che si è trasformata in Rinascimento permanente (esattamente come è successo a Napoli, viene facile da aggiungere…). Chi visita Palermo resta impressionato dai cantieri aperti, sembra, appunto, una città in continua evoluzione. In realtà è tutto fermo. Non sono cantieri, sono transennamenti: «la discriminante tra i due generi è fondamentale e consiste nella presenza o meno di operai a lavoro». Un’eterna temporaneità, anche questo è annacarsi.
Poi c’è Ustica, che a volte scompare alla vista, Lampedusa, dove invece scompaiono i migranti e Mazara del Vallo, con il suo mescolamento di cittadinanze, le stazioni radio tunisine e i ristoranti, dove «il cuscus ha la stessa dignità degli spaghetti, se non maggiore». Qui nel trapanese «i pescherecci sono tutti dei laboratori etnici esemplari» e se il cuoco a bordo è italiano viene invitato a rispettare le inibizioni alimentari di cristiani e musulmani. Il cuscus, festeggiato ogni anno a San Vito Lo Capo, d’altro canto è il cibo della convivialità: «incocciare è il verso che indica la preparazione della semola, e incocciarsi è il termine che in siciliano sta ad indicare l’incontro casuale».
E il viaggio continua con tappe che ci spiegano i tanti volti di questa terra, anche i meno scontati, come l’inspiegabile paura del mare che hanno tanti isolani. Gli abitanti di Realmonte, ad esempio, piccolo paese non distante dalla spiaggia dove si erge la Scala dei Turchi, spettacolare quanto sconosciuta scogliera di marna. E, ancora, la “picassiana” Favignana, con le sue tonnare, Selinunte e Segesta, con il suo teatro, la passione per le tragedie e la maledizione del «tragediare», un’epressione dialettale che indica, in senso dispregiativo, la tendenza a drammatizzare ogni cosa.
Ma per capire le contraddizioni della Sicilia basta recarsi ad Agrigento dove si possono osservare i templi riempendosi gli occhi di grecità e poi, solo ruotando su se stessi di 180 gradi, soffrire alla vista di tutto quello che è stato costruito dopo, dell’identità e dell’intelligenza perduta. Dell’acqua che non c’è nonostante i suoi quattrocentosettantasei (476) enti pubblici che dovrebbero occuparsi della rete idrica.
Questo libro è anche un percorso di incontri, con persone ognuna speciale a suo modo, che con la loro storia hanno ridisegnato la geografia culturale della Sicilia come il folle di Sciacca che pensava di essere un re e a partire dal 1919 realizzò circa tremila sculture a forma di testa, oggi ancora tutte nel suo podere, acquistato dalla Regione e visitabile. O come Vincent Schiavelli, attore siculo-americano felicemente rientrato nella sua Polizzi Generosa, paesino delle Madonie a cucinare le ricette di suo nonno, monsù di una famiglia aristocratica della zona. La cucina era il suo regno, dove preparava «lo sfoglio, il dolce a base di formaggio fresco, cioccolato e zuccata» oppure la caponata di melanzane e cantalupo. Ma soprattutto a Polizzi si preparava «il coniglio, ricetta molto carica di svariati ingredienti, tranne uno: il coniglio medesimo. Sono grossomodo verdure lessate e saltate in padella assieme a ventresca di tonno o baccalà. Nella confusione dei sapori si coltivava l’illusione che ci fosse anche l’ingrediente mancante, quel coniglio che invece era roba riservata ai ricchi». Un po’ come succede con il ragu’ di carne fuiuta a Napoli: il realtà un sugo di sole verdure, saporita invenzione della cucina povera, poverissima.
E il coniglio si trova anche nella maggior parte dei ristoranti di Pantelleria: proprio come a Ischia, molto più del pesce. Qui è ovviamente suggerito di scansare il mese di agosto come la peste: il turismo, nonostante le bellezze dell’isola è di pura sussistenza, come l’agricoltura. Prospera lo zibibbo, l’uva araba per eccellenza e (ahimè) prosperano i vini del contadino, allungati con acqua e ghiaccio.
E ancora Gibellina, Noto, Avola, Siracusa, Scicli, Tindari, tutte con i loro miti e la loro storia, quasi sempre sconosciuta ai più. Con le loro madonne, le loro superstizioni. E le loro processioni, come quelle del Venerdi Santo o il Festino di Santa Rosalia, feste ad un tempo popolari e politiche.
Meno conosciuta, ma per questo più interessante è l’eccentrica Castelbuono, piccola cittadina tra le montagne e la costa che ha saputo miracolosamente evitare ogni tipo di omologazione, anche quella mafiosa. Poca agricoltura, molto commercio. E oggi, secondo Roberto Alajmo, può vantarsi di essere «la capitale siciliana della gastronomia», con una trentina di ristoranti molti dei quali di ottimo livello, tutti legati al territorio. Un circolo virtuoso generato da una eccezionale (da queste parti) osmosi tra pubblico e privato che ha convinto molti cuochi emigrati a rientrare. E che «consente al gestore del bar di tagliare direttamente sulla piazza di Castelbuono i suoi dolci alla manna e offrirli ai passanti in golosa degustazione».
Infine si attraversa Catania e il suo provincialismo, il bellissimo inferno delle Gole dell’Alcantara, e finalmente le Eolie, isole che non amano il mare, dove gli abitanti non vivono di pesca ma dei loro orti e del «pane caliato, duro con cui accompagnano le insalate».
Il viaggio si chiude con alcuni posti meno noti, dove bisogna veramente volerci andare, come Mozia, con la sua opera scultorea che è la più bella della Sicilia, o come Castel di Tusa, dove Antonio Presti si è inventato l’Atelier sul Mare, un albergo dove ogni stanza è un’opera d’arte contemporanea nata per dare forma ad un sogno.
Dopo Mineo e Cefalù un intermezzo sul vino siciliano, percorso tortuoso per un finale di successo. La maledizione di Omero, l’esaltazione di Plinio il Vecchio, una storia gustosa, raccontata con amara ironia. La storia di una regione che ha quasi sempre prodotto più che consumato, dal respiro corto, dalla politica dell’uovo oggi. Le cantine storiche dell’Ottocento, la piaga della fillossera e poi la rinascita con le nuove generazioni: «non più uova oggi ma galline domani». Meno quantità più qualità: praticamente una rivoluzione culturale. Il vino è riuscito a contrastare l’anatema di Leonardo Sciascia che sosteneva che i siciliani non credono alle idee: in questo caso le idee sono riuscite addirittura a produrre reddito.
Il viaggio di Alajmo si chiude con il suggerimento delle via di fuga dal turismo agostano di Taormina, con l’eredità araba e fenicia di Trapani, con la passione per la siesta di Erice e della cioccolata di Modica.
Per concludere, Ragusa e Messina, in un ultimo zig zag che incuriosisce, a tratti impensierisce il lettore, guidato fino alla fine in un viaggio mai troppo facile, ma proprio per questo interessante e godibile.
Virginia Di Falco
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