La frase di Bersani sui ristoratori evasori è una delle cose che più mi ha sconvolto negli ultimi mesi. Intendiamoci, so benissimo con quanta sufficienza venga guardato il mondo della ristorazione da un certo ceto politico e culturale italiano nonostante il Gambero Rosso sia nato da una costola del Manifesto e che Slow Food sia nato nell’Arci, l’associazione culturale che faceva riferimento al Pci e in parte al Psi negli anni ’70.
Ma nonostante tutto, questo ceto politico, di cui Bersani è una delle espressioni più presentabili, ha di fatto da sempre messo in secondo piano i temi dell’agricoltura e della gastronomia preferendo concentrarsi sulla manifattura e l’industria. Operai, quadri, e ovviamente dipendenti pubblici e pensionati.
Uno dei motivi della continua perdita di consenso della sinistra è stato quello di rimanere, nonostante le grandi trasformazioni in atto, ancorata a questo schema secondo il quale il problema dell’evasione fiscale è da cercare proprio nella ristorazione e nell’agricoltura piuttosto che altrove.
Nel corso di questi ultimi 30 anni la sinistra, o gran parte di essa, è diventata il partito delle tasse e la morsa sui lavoratori autonomi si è stretta sempre di più. Se non la si prova, non si può capire. Finchè sei dipendente, tutto è trattenuto alla fonte, quando diventi partita Iva devi per forza mettere in conto di pagare un commercialista per l’enorme mole di norme a cui bisogna fare fronte, alle continue scadenze tra versamenti acconti, alla giungla delle detrazioni, ai controlli che inevitabilmente portano a delle multe e a nuove pretese.
Il Covid ha messo a nudo questa realtà e ha mostrato qual è veramente la parte più indifesa, più debole, della società italiana: proprio quella che politici come Bersani ritengono responsabile dell’evazione fiscale! Tra l’altro le partite Iva sono gli unici che devono pagare le tasse sui soldi ancora non guadagnati!
Non temono il lockdown i dipendenti statali, lo temono un po’ meno i dipendenti privati se lavorano in aziende a rischio, lo auspicano gli strozzini e la delinquenza organizzata perchè così possono fare shopping di locali e di aziende. Chi resta scoperto sono proprio i piccoli imprenditori.
Ora tutto questo in una logica di cinismo politico potrebbe anche non interessare. In fondo Stalin deportò qualche milione di kulaki, piccoli proprietari terrieri, per far posto ai sovchos, ossia all’idea che il processo agricolo dovesse essere allineato a quello industriale.
Bene, in Italia a gennaio, poco prima del lockdown ci sono 5,3 milioni di partite Iva aperte (il 23,2% degli occupati totali) e, solo lo scorso anno, ne sono state aperte oltre 400mila. Questi lavoratori devono fronteggiare numerose insidie, fra cui un reddito medio in picchiata, che negli ultimi dieci anni è calato di 7mila euro. Stanto ai numeri di Confcommercio professioni, dal 2008 i liberi professionisti hanno perso il 25% dei guadagni annui. Accanto al reddito in calo c’è da prendere atto anche di una situazione debitoria fuori controllo. Il 98% “ha in corso rateizzazioni per debiti o mancati pagamenti” che si accumulano alle varie scadenze fiscali.
Questo mondo, che rappresenta un quarto della popolazione attiva, non ha rappresentanza politica di fatto perchè nemmeno la destra quando era al governo ha fatto nulla per semplificare la vita ai piccoli imprenditori.
Ora la frase di Bersani sconvolge per la sua genericità, un po’ come quando Salvini parla degli immigranti come delinquenti, salvo poi a scoprire che sono indispensabili per il nostro sistema economico a partire dal lavoro nei campi.
Ma sconvolge anche per la sua ignoranza, una ignoranza che spiega perchè gli interessi agricoli dell’Italia non sono mai stati difesi adeguatamente in sede europea a differenza di quanto hanno fatto tedeschi e francesi, perchè abbiamo accettato supinamente regolamenti che offendevano la dignità dell’artigianato e dell’agricoltura di precisione.
Spiega perchè i temi agricoli sono scomparsi dalle tv, se non in forma di tavolate finali dei programmi gastronomici dove i protagonisti indossano abiti dell’800 per fare un po’ di folklore.
Ma sopratutto ignora che la gastronomia è uno dei pochi settori dove l’Italia detta legge nel mondo, che il nostro cibo è avidamente cercato e imitato o falsificato per una cifra pari a quello autentico, ossia circa 80 miliardi di falso Made in Italy a fronte di altrettanti di quello legale.
Ignora che le nostre città senza ristoranti e trattorie, sarebbero tristi luoghi con le grandi catene mondiali a farla da padrone e non sarebbero più città italiane.
Ignora, come ha fatto notare la ministra Bellanova nella drammatica riunione di stanotte, che questo settore assorbe i prodotti dell’agricoltura di qualità ed è uno sfogo per tanti giovani tornati alla terra e che da solo occupa complessivamente 1,3 milioni di persone in circa 330mila aziende (tutti evasori per l’ex segretario del Pd?) e che sino al lockdown aveva un tasso di crescita del 3%, ossia tre volta superiore a quella del pil nazionale.
Bersani ignora che dunque parliamo di cultura, cultura materiale che forma il nostro stesso essere italiani, con ogni regione che ha la sua specificità e il suo orgoglio gastronomico. Se fosse un politico moderno e non un vecchio signore da talk show, capirebbe che una sinistra vera, una forza progressista che abbia un progetto di paese nel mondo globalizzato, dovrebbe porsi il problema di difendere questo settore, non di affossarlo.
Mentalità che riguarda anche De Luca in Campania e per fortuna non Bonaccini in Emilia.
Ora questo accanimento verso i ristoranti, non equiparare questo settore all’industria e alla manifattura nell’agenda politica, è indice di una profonda ignoranza oltre che di opportunismo politico perchè è chiaro che in questo caso è un mondo frastagliato e con una rappresentanza debole.
Certo, la situazione sanitaria è grave, si possono capire orari più ristretti la notte, è il momento in cui davvero tutto è fuori controllo, si deve fare una distinzione fra ristoranti e bar. Insomma, ci vorrebbe un lavoro certosino, invece di ragionare per categorie semplificate, per affrontare questa situazione.
Ma soprattutto ci vorrebbe quella cultura e la conoscenza del paese reale che un ceto politico nominato e ricco di privilegio ormai non è in grado di capire e di affrontare.
Ci sembra che una cosa di buon senso l’abbia detta Bruno Vespa
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