Ristorante 28 posti a Milano Marco Ambrosino
Via Corsico 1
Tel. 02 839 2377
Chiuso lunedì,martedì solo la sera
di Giulia Gavagnin
Fino a qualche tempo fa andavi da 28 Posti e sentivi mare, sale, salso, storie di isole e marinanti. Marco Ambrosino, uno degli chef più talentuosi della sua generazione, diceva che la sua era una cucina di porto, di navi che attraccano alla banchina che sa un po’ di ferro e un po’ di stella marina, e pensavi a Napoli, Istanbul, Genova, e per chi la conosce a Procida, la sua isola natale. Nel giro di un paio d’anni Marco Ambrosino non è più solo compositore di brani carichi di sapidità e profumi di pino marittimo, è diventato portatore di un’idea, di un concetto che magari non ha l’appeal ruffiano per piacere a chiunque, anzi, intende scuotere e far pensare, è una cucina di prossimità dice lui, “collettivo mediterraneo” dice ancora (così si chiama il suo progetto), ma forse è proprio una vera e propria ”enciclopedia del mediterraneo”, perché non c’è più solo il mare, c’è la cucina ancestrale, la tradizione, le tecniche, le fermentazioni che ha imparato dai danesi del Noma senza pedante e asettica ripetizione, ma intento di mimare l’idea di conservazione, che quei nonni esposti a temperature elevate senza frigorifero conoscevano bene.
Lo scorso anno era uscito dai confini del mare e della terra di Danimarca con un’invasione nel mondo berbero, ricordiamo uno stupefacente agnello alla maniera dei predoni del deserto che quest’anno viene rivisto in versione kebab.
Ma questo è niente. Marco Ambrosino ha fatto convivere sotto lo stesso tetto greci, arabi, campani, israeliti, siriani in un amalgama entusiasmante che non è mai già visto, che non pesca qua e là tra paesi e regioni per proporre un pout pourri di piatti etnici bensì fonde tutto insieme, con ogni piatto che costituisce un tema che viene sviluppato con l’ausilio degli altri elementi.
Uno su tutti, le trottole Pastificio dei Campi che incrociano Libano e Grecia, fattoush e taramosalata e chicche di pane nero fermentato inoculato per cinque giorni, un tema che di fatto è il pane del mediterraneo che dà esiti eccellenti.
Tuttavia, il Marco Ambrosino 2020 eccelle nel percorso completo. Si inizia con frutta e verdura fermentata con olio di finocchietto, il vegetale a lui caro, per preparare la bocca. Ancora il vegetale, piuttosto complesso, battezza un’insalata di zucchina fresca e fermentata con burro acido, finocchio, olio di argan e tartufo, e un florilegio di erbe officinali.
Ma il meglio deve ancora venire. L’ostrica alla brace è impreziosita con perle di tapioca, maionese di ostrica e…ippocrasso. Cosa sarà mai, ci chiediamo. Vino ottenuto dalla fermentazione della pasta, una delle novità di quest’anno. Il gioco è cedroniano perché di Moreno è la madre di tutte le ostriche apprestate a festa, però qui l’equilibrio tra lo stringente e il grasso della maionese è eccellente. Il mare in bocca continua con una trilogia di pesce povero: tacos di alici e taramosalata, ravioli di sarda affumicata, arachidi e brodo di orzo fermentato e uno spiedino di sgombro appoggiato su una ceramica realizzata dallo stesso Ambrosino.
Con il porro alla brace, miso, prugna maturata nella polvere di aceto e l’ombrina fritta, polvere di alga Kombu e salsa bernese (forse il piatto più scontato del lotto) si vola veloci verso l’agnello “summa del mediterraneo”, con le polpette kofta e un hummus particolarmente ostico per gli spiriti meno preparati.
Marco Ambrosino è uno chef colto e silenzioso, schivo e intelligente, di cui non si parla abbastanza, per ragioni non del tutto chiare. E’ piuttosto conosciuto a Milano e nello stretto ambiente dei gourmet, ma non è un nome di punta. E’ un peccato e anche un po’ un mistero. Lavora in un bistrot a forte vocazione solidale (i mobili di 28 Posti sono stati fabbricati dai carcerati di Bollate con materiale riciclato), forse un ambiente più laccato gli gioverebbe in termini di ritorno d’immagine, ma credo sia contento così, che si trovi a suo agio negli spazi che occupa da ormai quasi cinque anni, ai piedi del Naviglio Pavese dove si mescolano bohème e movida. Se fosse circondato da un ambiente appena più opulento, sarebbe forse considerato dirompente come fu Paolo Lopriore negli anni di Siena, perché la sua proposta è personale al 100%, il progetto che sta portando innanzi è del tutto originale, è il big-ben della cucina mediterranea contemporanea, ricca di passato e di presente. E’ vero che quest’anno ha presentato un percorso finalmente maturo e senza cedimenti, che forse questo 2020 è per lui un anno di svolta, che negli anni a venire influenzerà colleghi e pubblico in modo decisivo. Per questo abbiamo il compito di parlarne, in un’epoca di cucina copia e incolla in cui l’estetica ha preso il sopravvento anche nei giudizi delle guide specializzate. 28 Posti quest’anno è da inserire in agenda ad ogni costo.
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REPORT DEL 28 OTTOBRE 2019
E niente, sicuramente è questo il posto di avanguardia che preferiamo e che consigliamo a Milano. Tutto eco sostenibile, a cominciare dal prezzo di 60 euro per la degustazione base di cinque piatti a cui si aggiungono aperitivo e benvenuto e piccola pasticceria. Non potrete andare oltre gli 80 e in questa città così frizzante e ricca di vita, come mai forse nella sua storia recente, è difficile mangiare cucina d’autore a questi prezzi.
La cucina di Marco Ambrosino è scattante, aggiornata, leggera, mediterranea, luminosa. Tecniche apprese nella gavetta dei ristoranti spagnoli e il Noma a Copenhagen e applicate alla materia prima di alta qualità, senza disdegnare richiami all’Oriente. Ma il punto vero è la capcità di estrarre sapore dai piatti, che hanno quasi tutti una vocazione vegetariana come l’iniziale minestra di verdure, fresca, acida, che ripulisce il palato.
O come nel piatto di rape, davvero eccellente e saporito.
Marco Ambrosino in una fase decisamente creativa, ogni due mesi cambia menu arrivando alla fine a contare quasi cento piatti l’anno. Una proposta varia, anche stagionale, che spinge a tornare ma che sopratutto sembra aver trovato in questo posti che, stretti stretti, arriva a 30 coperti, un equilibrio perfetto. Fuori dal circuito gastrochic, senza, udite udite, neanche un ufficio stampa in una città dove anche il chiosco dei gelati comunica quello che fa, la sua cucina è amata dal pubblico che riempe regolarmente il locale a pranzo e a cena perché ci si sente a casa e ci si diverte.
Non mancano spinte estreme, di chiara derivazione spagnola, come l’ostrica con il grasso di agnello. Un animale che non arriva porzionato ma intero intero dall’Abruzzo per essere sfasciato in cucina e proposto alla grande in pitti ricchi di sapore tra cui queste a cui noi italiani non siamo abituati (gli spagnoli prediligono il maiale in questo tipo di abbinamento).
La cottura del pesceè perfetta, stratosferica, buonissimo lo sgombro, così anche il rombo, presentato senza alcuno scarto, a cominciare dalla testa.
Prima però questa esecuzione di pasta che ricorda il piatto presentato da Joshua Pinsky di Momofuku Nishi a Lsdm Paestum nel 2018 dopo aver vinto il Primo a New York di Di Martino.
Capolavoro mediterraneo poi l’agnello in tre portate, dal soffritto di interiora alla terrina. Una preparazione complessa ma straordinaria che riesce ad esaltare il sapore senza inutili compromessi perché chi sceglie questi piatt sa già quello che trova.
Spaghettini come dolce e piccola pasticceria concludono la nostra seconda visita dell’anno a questo posto. Lo confessiamo, non riusciamo a farne a meno per la informalità, la carta del cibo originale e curiosa, i piatti che spiazzano non per l’estetica ma per gli accostamenti e il sapore.
Un vero e proprio miracolo a Milano insomma, che noi speriamo duri il più a lungo possibile perché è davvero il simbolo della cucina del futuro, quella di un Mediteraneo che accoglie, traffica, scambia e cresce. Un presidio del vento del Nord nell’unica città italiana in grado di comprenderlo e valorizzarlo. Un vento del Nord he si riscalda però con i prodotti e la gioia del cibo del Sud.
Report del 24 marzo 2019
“La cucina berbera, amazigh, è tipica del Nord Africa, ed è un’evoluzione di quella che un tempo era l’alimentazione dei pastori. Nel settimo secolo gli arabi dalla Persia introdussero le spezie, i Mori olive e piante di agrumi quando tornarono dall’Andalusia, cacciati dai Cristiani. Infine, più recentemente, la dominazione francese sulla zona ha lasciato una sua propria influenza. Il 22% del territorio del Marocco è coltivato (e la percentuale è sorprendente se si pensa all’estensione del deserto e delle montagne) a olive, agrumi, mandorle”. Nasce da questa considerazione un fantastico agnello macerato nel miele con spezie e il suo garum. Un piatto che è un calcio di rigore a porta vuota, come la spigola e la pasta.
Non c’è niente da fare: oggi Marco Ambrosino è uno degli under 40 più talentuosi che abbiamo in Italia, la sua creatività è praticamente inesauribile e gioca con il Mediterraneo, il futuro è il recupero della memoria del cibo prima del frigorifero omologante e straniante, così come sta avvenendo ovunque in Europa, declinato sull’etica del recupero, della compatibilità ambientale, ma comunque sempre ambientato nel Mediterraneo.
In questa fase di ripiegamento della cucina d’autore a favore della tradizione, la cucina di Marco Ambrosino è uno dei pochi segnali in controtendenza che abbiamo in Italia. Certo, ciò è possibile perché siamo a Milano, ma in questo locale sui Navigli dove tutto è materiale di recupero e ha significato etico, si respira veramente un’altra area. Era da tempo che non uscivo così impressionato da una cena di cucina d’autore. Tutto è bello: l’ambiente, i tavoli sempre pieni di gente interessante, il calore dell’arredamento, la cucina dove si battaglia, le idee che escono una dopo l’altra con grandissima efficacia. Estrazione del sapore, gioco a tutto campo di consistenze e di toni non solo amari e acidi su cui la presunta avanguardia si adagia per mostrarsi figa. Prezzo comunque contenuti e una lista di vini coerente con questo progetto, dalle bollicine francesi al rosso siciliano.
Un vero rifugio per chi ha voglia di uscire dai soliti percorsi. Quello supporta questa cucina è il fatto che non siamo di fronte ad uno stile solipsista come pure è avvenuto in altre occasioni (non faccio i nomi di Lo Priore e di Parini per non scatenare ulteriore polemiche), bensì alla manifestazione italiana di una fenomeno ampio e internazionale. Non possiamo parlare di avanguardia, ma di contemporaneità, come nel caso dei Bros a Lecce. Una contemporaneità che in questo caso è giocata sulla conoscenza delle tecniche e l’abbinamento alle materie e alla memoria del Mediterraneo, mare di sangue e di traffici, oltre che di plastica e navi da crociera.
Cenare da 28 posti a Milano da Marco Ambrosino è sicuramente una esperienza interessante se sei un gourmet, se invece sei solo un appassionato,non puoi non ritrovarti dietro ad alcune golosità, come, lo ripetiamo, nel caso degli spaghettini (“mi sono fissato su questo formato per colpa di Peppe Guida”) di cui ho chiesto il bis!
Forse un po’ estremo per la Michelin, di solito in cerca di foglie di fico più confortanti, alternativo alla fighetteria stile chef milanese con auricolare, guardie del corpo e segretarie, Marco Ambrosino è un riferimento per quanti hanno voglia di provare qualcosa di nuovo, originale e non copiato a Milano.
28 Posti Milano. Marco Ambrosino
Ristorante 28 posti a Milano Marco Ambrosino
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