Via dei Banchi Vecchi, 129
Tel. 06. 6880 9595
Aperto a pranzo e a cena
Chiuso: domenica, lunedi, e martedi a pranzo
www.ristoranteilpagliaccio.com
Al Pagliaccio la cucina di Anthony Genovese è sempre più ricca di personalità, fuori dalle rotte normalmente battute nella Capitale: in questa sala lunga ed elegante, gestita con piglio deciso e professionale l’esperienza gastronomica è impegnativa, senza cali di tensione.
E se all’inizio della carriera dello chef erano le spezie che contaminavano l’italianità dei prodotti e delle preparazioni, adesso alla soglia della maturità espressiva si intravede la voglia di proporre una cucina internazionale, leggera, senza strizzate d’occhio alla tradizione e men che meno alle piacionerie, dove carne e pesce convivono in quasi tutte le portate e la componente liquida – pensiamo ai brodi, tutti straordinari – hanno una importanza fondamentale nella concentrazione e nella esaltazione dei sapori.
Si comincia con crema di patate, anguilla affumicata e uova di salmone. Morbidezza e sapidità in due piccole ma confortevoli cucchiaiate. Nessuno stupore, nessuna sorpresa. Ma, appunto, siamo solo all’inizio.
Anche lo starter successivo è nel segno del comfort: baccalà con quinoa e salsa agrodolce. Un bocconcino fritto e la goccia rossa acidula a fare da contraltare, come ci si aspetta.
Ed ecco che arriva il vero solletico al palato dove meno te lo aspetti: spuma di pane, zucca caramellata alla fava tonka. Servita con una stuzzicante cialda di paprika, pomodoro secco e capperi. Nemmeno il tempo di pensare che si sta per riconoscere qualcosa di ancestrale, che arriva l’essenza aromatica della cumarina e l’accenno tannico in tanta morbidezza è davvero piacevole.
Un piccolo stop con lo yogurt, castagna arrosto e spuma di birra con panino al vapore con salsa di rose, forse il meno efficace tra gli appetizer: nessuno degli ingredienti tira davvero fuori il carattere.
Le due facce della golosità: quella infantile e quella adulta nei due snack successivi: il raviolo fritto con mortadella e chinotto e il tacos di riso venere con tofu e scarola. Quanta testa, ma anche quanta manualità, in un solo boccone.
Ed ecco la prima portata davvero spiazzante. Calamaro con olio al sesamo nero, pelle di pollo e crema di fave. Abbinamento terra-mare insolito, nessuna affannosa ricerca di equilibri, il grasso vegetale e quello animale prevalgono infatti su tutto, ma in una sensazione complessiva di grande piacevolezza. Un’esplosione di sapori, proprio come accade nei piatti di carattere.
Anche l’abbinamento successivo, l’ostrica, rape e caffè con neve di burrata, gioca più sulle consistenze che con le affinità elettive tra gli ingredienti. E anche se non amiamo i prodotti del latte con i frutti del mare, qui l’ostrica ne esce benissimo, con la parte grassa del piatto solo leggermente corretta dalla rapa e dall’aroma del caffè.
Ancora nessuna linea di confine tra carne e pesce, con il musetto di maiale, seppia ed erbe amare. E nessun confine geografico, potresti essere in Asia o a casa tua, con in bocca il grasso buono più riconoscibile del mondo.
E poi quando credi che mare e terra abbiano già fatto tutti gli incontri possibili, ecco che arriva il fegato grasso, in brodo di sgombro, con mela cotogna. Brodo strepitoso, pulito, fresco, profumato; l’accoglienza per i bocconi succulenti di foie gras non potrebbe essere migliore.
E poi il primo piatto che a questo punto della degustazione svolge quasi il ruolo di portata rassicurante: spaghetti di grano arso, ricci e lumachine di mare. Farina antica, mare assoluto, un ritorno alle origini.
Nel primo piatto successivo riappare il grasso del maiale, in un abbinamento quasi sorprendentemente classico, tortelli di maiale, pecorino e broccoletti.
E poi ancora un primo, confortevole ed elegante, come la tazza da tè nella quale viene servito: ravioli di ossobuco, agrumi e cardamomo. Di nuovo un brodo aromatico eccezionale, per boccone bello pieno, godurioso, con una sferzatina agrumata indovinatissima.
Leggero e profumato il san pietro, con cavolfiore e tè verde.
Unico richiamo (forse si, forse no) alla romanità, l’agnello con il carciofo e il cardo, profumato all’aglio nero. Cottura perfetta, parte vegetale potente, il quinto quarto è co-protagonista. Bocconi saporiti e, soprattutto, nessun segnale di stanchezza arrivati sino a questa tappa del viaggio.
Viaggio che si avvia alla chiusura come piace ad Anthony Genovese, con uno dei suoi “snack al formaggio”, subito prima del dolce.
E poi il momento del dessert, dove lo stile di Marion Lichtle si prefigura come un nuovo classico, senza eccessi zuccherini e senza rinunciare mai alla freschezza.
Prima, il profumo degli agrumi e della rosa canina nel pre dessert. Per arrivare poi al sorbetto di albicocca, soffice alla ricotta e caramello alle mandorle. Buonissimo. E chiudere con la perfezione millimetrica della piccola pasticceria.
Ricca, profonda e fuori dalle banalità la carta dei vini. Sicura, professionale e condotta col giusto spirito la sala, guidata da Gennaro Buono. Davvero una squadra di cui essere orgogliosi.
Degustazioni da 75 (light lunch) a 130, alla carta 150.
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