Metamorfosi
Via Giovanni Antonelli, 30
Tel. 06 8076839
Aperto a pranzo e a cena
Chiuso: sabato a pranzo e domenica
www.metamorfosiroma.it
Due menu degustazione: 100 euro (6 portate) e 130 euro (10 portate). Conto alla carta sui 100 euro
di Virginia Di Falco
Metamorfosi di Roy Caceres ha appena festeggiato il suo quinto compleanno con un completo restyling della sala. Protagonista il legno chiaro, che grazie ad altissimi e geometrici separé disegna una nuova geografia dei tavoli, ora tutti ben distanziati e illuminati. Intonaco artigianale, colori naturali, linearità estrema.
Dico da subito che ho trovato la cucina davvero ad un livello altissimo. Indubitabilmente tra le più interessanti della capitale. Ho riprovato alcuni piatti che mi erano piaciuti, trovandoli migliorati. E tutti quelli nuovi erano di grande vivacità, curiosità e tecnica. Nessuna delle dieci portate del menu degustazione delude nè presenta segni di stanchezza.
Una carta dei vini più che soddisfacente, che permette di spaziare con agio, anche se i ricarichi tendono tutti verso l’alto.
La cifra della concretezza, ma allo stesso tempo del garbo, di Roy Caceres viene immediatamente appoggiata sul tavolo, a inizio degustazione: pane e olio. Cioè una pagnottella di farro e semi ancora tiepida che farà sciogliere dolcemente e irresistibilmente il panetto che sembra burro salato ma invece è olio extra vergine di oliva.
Buone le streghette di mais, come i diversi tipi di pane. Pronti così a cominciare.
Insalatina di cozze in crema di patate con polvere di nero di seppia. Sembra più una zuppa all’inizio, ma poi il cucchiaio che affonda perbenino risale con pezzetti saporiti di cozza, insieme a quelle erbe che vi fanno pensare proprio all’amarostico delle insalate e che poi troverete a profusione in quasi in tutti i piatti.
Ancora un mollusco nella portata successiva: emulsione di ostriche, erbe, alga nori e nocciole in brodo di cavolo fermentato. Tutti i sensi e le consistenze del mondo appena nascoste in un piccolo scrigno. Ma lo iodio alla fine trionferà, come è giusto che sia.
Piacevolmente fresco il gambero rosso al ‘pisco sour’, cocktail sud americano a base del celebre distillato peruviano (e cileno) con limone.
L’antipasto davvero squisito che mi ha conquistata: “foglia di grano”, un taco di bietola con dentro tonno rosso crudo ed erbe. Da mangiare dunque con le mani, e che diventa godurioso appena passati i cinque secondi utili a capire che non soffrirai del retrogusto terragno della verdura più punitiva del pianeta.
Amo i classici, come la persona che è al tavolo con me. E allora chiediamo di inserire nel percorso degustazione uno dei capitoli da manuale dello chef: l’uovo carbonara cotto a 65 gradi, servito con qualche tubetto di pasta croccante e cotenna di maiale croccantissima. Piacevole ogni cucchiaiata ma bisogna prendere sempre insieme anche un pezzettino di guanciale, altrimenti resta alla fine davvero solo il sapore dell’uovo.
Infine, a chiudere la batteria di antipasti, a grande richiesta, l’anguilla di Comacchio con farro franto e carpione gelato. Della serie il primo amore non si scorda mai. E figuriamoci la golosità e l’equilibrio di questo piatto, con l’anguilla laccata alla perfezione.
A seguire, un goal di Caceres a porta vuota: alzi la mano chi riesce a dire no a dei tortelli con parmigiano invecchiato e tartufo. Sfoglia ruvida, ruvidissima. Consistenza perfetta. Grazie anche al brodo, più rassicurante di un abbraccio.
Risotto con la coda di bue, erbe e cacao: insieme al taco di bietola, il piatto della serata. Un’onda che continua, dalla cucina al tavolo. Si infrange su una coda sfibrata al punto giusto, la masticazione solleticata dalle erbette, la cremosità tenuta a bada dal cacao. La battutaccia «a me un secchio, grazie» è scappata. Scusate.
Anche la portata di carne, in realtà, è soprattutto un esercizio vegetale: il trancio di presa iberica è nascosto da una foglia di cavolo verza al naturale ricoperta di polvere di alga marina e mela agrodolce, accompagnato da tocchetti di sedano rapa. Ad ogni boccone è evidente che il vero contorno, qui, è il maiale.
Sempre convicente e di carattere il capitolo dolci: dal pre dessert con blu di monviso e cioccolato bianco, all’efficacia cromatica e freschezza del dessert ai cachi, mandorle, limone e semi di chia, fino alla piccola quanto perfetta pasticceria di chiusura.
Insomma. Un percorso degustazione in crescendo, di grande spessore e vivacità. Aperto – particolare non trascurabile – a qualche variazione e innesto richiesti al momento dell’ordinazione.
Dall’apertura ad oggi sono trascorsi cinque anni di crescita personale, senza mai smettere di guardarsi intorno; con richiami sempre solo sussurrati e mai superflui alla terra che lo ospita e a quella che lo ha partorito. E poi, determinante e vincente, la virata verso il mondo vegetale. Erbette, foglie, alghe, tuberi. Il linguaggio che parlano ormai tutte le più moderne cucine del mondo. Ma che qui non corre mai il rischio di apparire troppo flebile. O esangue. I piatti hanno sempre nerbo e robustezza. E dunque non si dimenticano.
Il racconto di questa esperienza non sarebbe tuttavia completo senza un accenno alla sala. Che non ci ha convinto del tutto. Ben inteso: parliamo comunque di un servizio preparato e competente. Ma in un ristorante con una cucina stellare (in tutti i sensi) ci si aspetta sempre una soglia di attenzione al cliente alta, se non altissima. E, soprattutto, costante durante tutto l’arco del servizio e per tutti i tavoli, senza distinzione (tra habitué e non). Un maggior coordinamento, soprattutto tra chi guida la sala e chi ha meno esperienza avrebbe sicuramente evitato qualche disattenzione di troppo, come ad esempio non portare la carta dei vini insieme al menu e neppure dopo la comanda. Ad ogni modo, nulla che non possa essere corretto. Ne siamo più che sicuri.
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