Tel. +39 06 699 34726
Aperto solo la sera, tutti i giorni.
(chiuso dal 2 gennaio sino al 9 febbraio 2017 incluso per ristrutturazione)
Che entusiasmante esperienza la cucina di Francesco Apreda all’Imàgo. Una pagina che ogni appassionato dovrebbe scrivere nel suo personale taccuino di note gastronomiche.
Mai come in questo caso, infatti, le valutazioni oggettive su una sala dove tutto funziona alla perfezione, con un panorama spettacolare su Trinità dei Monti, dove (ben) due sommelier fanno camminare una carta solenne e viva al tempo stesso, si intrecciano e si confondono con le personalissime impressioni su una cucina fusion tra le migliori della Capitale.
Francesco Apreda è uno chef che gira il mondo sin da ragazzo e che, una volta tornato, ha sempre riportato le sue note di viaggio nei piatti. Anche qui all’Imago, dove sta da 13 anni. Molti dei paesi che ha visitato hanno una cucina importante. Spesso ingombrante. Eppure la sua abilità è stata quella di non creare piatti che sembrassero un bagaglio importato dall’estero. A partire dalle spezie, le più varie e le più rare, presenti in ogni sua ricetta, in maniera così interiorizzata, armonica, quasi intima, da non lasciare mai la sensazione di qualcosa di esotico. Anzi. Seguendo la cartina geografica dei suoi viaggi tradotti in piatti, chi degusta non perde mai la bussola, che poi è quella campana delle origini. Francesco Apreda, infatti, non perde mai di vista Napoli. Dopo essere passato da un continente all’altro e dopo esserci ritornato. E questo doppio binario lo si legge innanzitutto in carta, dove, oltre ai piatti nuovi ci sono due percorsi degustazione: da un lato i classici dello chef e dall’altro i “sapori di viaggio” con un piatto dedicato ad ognuna delle sue città: Londra, Tokyo, Mumbai, Roma, New York e, appunto, Napoli.
Incrociarli, abbinarli, compararli è un viaggio nel viaggio che difficilmente si dimenticherà.
Ancora un amuse bouche potente, ancora spezie, nell’ovetto di quaglia croccante, su composta di fichi, da assaporare in un solo boccone di golosità e grassezza, proprio come un cioccolatino ripieno.
E poi la tecnica da maestro e la freschezza delle perfette miniature delle verdure in osmosi.
Pane e grissini non banali, quasi una portata a sé stante, con burrata da spalmare, al posto del burro.
L’inizio confortevole, forse il più confortevole tra gli antipasti in carta: la vellutata di porcini, con fritto vegetale, caprino; e, a completare, un’idea di miso rosso.
Un convincente foie gras in compagnia di un boccone di scone: alleanza franco inglese tenuta insieme da uno dei blend di spezie che hanno reso famoso Apreda. Davvero un accompagnamento indovinato.
Ed ecco la mozzarella di Apreda: dopo la sua dolce mozzarella di bufala, portata con successo ad una passata edizione de Le Strade della Mozzarella, un piatto davvero intrigante, dove a segnare la memoria è innazitutto il riuscito (e complesso) gioco di consistenze. Tecnica, scuola, ricerca, senza perdere nulla della suggestione del cibo originario: basta chiudere gli occhi e tutti i sapori si presentaranno riconoscibili al palato, netti e distinti. Strepitosa dichiarazione d’amore al Vesuvio.
Ancora Roma, ancora Giappone nel piatto. Incisivo ma delicato (e non solo per i petali di begonia rosa) l’antipasto che tiene insieme il crudo di scampi con i cubetti di lingua di vitello. A completare, la croccantezza della puntarella e la spinta acidula del ponzu.
Persino le cappesante qui all’Imàgo trovano non solo cittadinanza, ma anche una ben definita identità grazie alla preparazione shabu e ad un brodo eccezionale che regala loro carattere: un dashi con shiitake alla piastra, con una bustina da tè con dentro buccia di cedro, zenzero, cipollotto, basilico, katsoubushi, pomodori essiccati.
Ancora un volo andata e ritorno in Giappone per il polpo alle alghe e radici con la personalissima interpretazione di umami dello chef. E la conferma di come un piatto estremamente semplice, anche nella presentazione come in questo caso, possa attivare tutti i recettori sensoriali.
Ma siamo – anche con il cuore – a Roma, in Italia. La pasta non può mancare. Ed ecco allora il cappellotto al parmigiano che Apreda ha reso classico, ma alla sua maniera: servendolo con un brodo di tonno freddo e sette spezie. Quando il concetto di fusion non è moda ma studio e ricerca sull’armonicità di ingredienti che provengono da culture diverse.
Riuscito e forse anche un po’ ruffiano il piatto di pasta secca, con le trenette al pesto di shiso (il basilico cinese), patate e cicaline di mare.
Sempre presenti in carta i vermicelli al sugo di ricciola, uno dei piatti di battaglia di Apreda, forse il più conosciuto.
Dalle suggestioni asiatiche alle certezze romane, con il risotto al cacio, dove il pepe in realtà è un altro degli studiatissimi blend speziati dello chef. In questa versione stagionale, impreziosito dal tartufo.
E poi c’è il pollo. Già, il pollo che in Italia ancora con molta fatica si trova sulle tavole stellate. (In realtà si trova con molta fatica una carne di pollo buona, da noi).
Apreda lo presenta in due “culture” cioè in due cotture che ricordano due diverse culture nella preparazione di questo piatto popolare: da un lato ai peperoni – come a Roma- dall’altro la lunghissima marinatura che precede la cottura nel forno tandoori, tipica dell’India. Il risultato è strepitoso, perchè le carni di petto e coscia acquisiscono la stessa consistenza.
Anche il capitolo dolci è una carrellata di viaggi tradotti in esperienze sensoriali. A partire dalla samosa di sfogliatella napoletana e the verde, dove i picchi glicemici sono piacevolmente messi a tacere da una salsa di frutti rossi. Tecnica e passione si ritrovano nelle creme così come nel riconoscimento dovuto ma sentito alla pasticceria partenopea.
CONCLUSIONE
Una cucina di carattere, entusiasmante, che non annoia mai. Non leziosa, le spezie non servono a stupire, ma aiutano il piatto attraverso una padronanza tecnica assoluta e una conoscenza profonda che non si ferma mai nella ricerca e nella curiosità. Sicuramente una delle migliori cucine d’albergo in Europa.
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