Ristorante Il Pagliaccio a Roma Via dei Banchi Vecchi, 129/a Tel. 06 6880 9595 Aperto la sera, dal giovedì al sabato anche a pranzo Chiuso domenica e lunedì
di Giulia Gavagnin Tra le più fervide menti della cucina italiana contemporanea c’è Anthony Genovese, di lungo corso a Roma, sponda Banchi Vecchi. A pochi passi dalla statua di un eretico, proprio come lui. Giordano Bruno.
Non ho scritto “menti” a caso. Spesso si parla o si scrive di chef “dalla mano felice” o amenità simili, ma c’è la categoria degli assemblatori, più o meno bravi, e quella dei compositori, che lavorano con la fine materia cerebrale.
Genovese è senza dubbio un compositore, inizia da una pagina bianca e scrive uno spartito, polifonico e carico di suoni esotici. Nonché, mutevoli, proprio come il Pagliaccio che ha scelto come alter-ego, rappresentato dall’unico quadro appeso ai muri di un locale carico di specchi.
E poi, qui scatterà la seconda obiezione: è davvero italiana la cucina di Genovese? Non è, piuttosto, “contaminata” da un mix di culture, soprattutto orientali?
Vittime come siamo dall’epoca della suscettibilità, è facile generale equivoci di scarsa importanza che generano putiferi.
Chi scrive è dell’idea che non esista una cucina italiana, bensì una cucina regionale italiana. Tutto quello che vi esula, tutto quello che rientra nell’idea di una cucina italiana codificata da nord a sud è invenzione o illusione, perché semmai alcuni piatti regionali sono divenuti celebri in Italia o nel Mondo travalicando i confini, ma mantengono pur sempre la fortissima identità originaria. La cucina italiana da “grande ristorante”, per intenderci da “ristorante borghese” è debitrice –volenti o nolenti- alla Francia e ai suoi stilemi (non, ovviamente, con riferimento alla materia prima), dove i ristoranti sono nati.
Quindi, trattasi già di contaminazione.
E’ contaminazione tutto il fine dining italiano che ha rubato tecniche e saperi alla Spagna dei cuochi baschi e di Ferran Adrià, per non parlare del discutibile innamoramento di alcuni nostri chef per le altissime latitudini scandinave.
Eppure, questi cuochi/autori sono considerati a tutti gli effetti esecutori di cucina italiana, seppur in questa misura contaminata.
Con maggiore sospetto per la patente di “italianità” si guarda se la contaminazione è extraeuropea: è un nonsense, ormai.
E’ vero che siamo storicamente un popolo contadino e stanziale e autori di poche e malriuscite campagne coloniali. E’ anche vero, però che vivono all’estero tanti italiani quanti ve ne sono in Italia e che dai tempi che furono Grandi Italiani conquistarono il lontano Oriente: il nome di Marco Polo dice nulla?
Per non parlare della mobilità dei popoli: sarà sempre più rilevante e la circolazione di beni e persone porterà sempre di più a mescolare saperi e culture.
Per questa ragione sono convinta che la “cucina italiana contemporanea” sia tutta contaminata e che Anthony Genovese ne sia uno dei più squisiti interpreti.
Il Pagliaccio ha festeggiato lo scorso anno i vent’anni di attività e a dire dei “foodies” è il miglior ristorante di Roma, con estensione tra i primi venti in Italia (il posizionamento è sempre dovuto a un quid di soggettività). Bistellato da svariato tempo, con l’attenta supervisione in sala di Matteo Zappile, ha sostenitori che reclamano da anni la terza stella e detrattori che non capiscono fino in fondo la straordinarietà della cucina di Genovese il quale, a buoni conti, è stato tra i primi a osare esotismi spinti. Forte di un bagaglio tecnico che dire impressionante è poco: è calabrese educato in Francia, è stato pupillo di Annie Feolde all’Enoteca Pinchiorri, ha fatto prendere le due stelle a Palazzo Sasso a Ravello.
Da un paio d’anni ha creato un percorso nel percorso: “Parallels”, riservato a sei persone in una sala appartata del locale, è una sorta di Chef ‘s Table all’ennesima potenza, dove lo chef propone un esteso menu cui approcciarsi senza pregiudizi. Gli esperti affermano che si tratta di una delle più sensazionali esperienze culinarie che si possano fare in Italia.
Noi, per indisponibilità del tavolo, ci siamo “accontentati” del percorso ordinario che come potrete immaginare, di ordinario non ha assolutamente nulla.
Già gli amuse bouche, per presentazione e consistenze fanno capire che qui la differenza con i concorrenti è abissale. Le cialde del pane chapati sono finissime, croccantissime, eteree. Decisamente di un’altra mano (stavolta, sì).
L’aperitivo iniziale è accompagnato dallo champagne 100% da uve chardonnay “Funambulle” di Alberto Massucco, l’imprenditore torinese che ha acquistato alcuni ettari di vigna nella patria della bolla francese. Vinificato dal compianto Erick de Sousa, è stato concepito apposta per Il Pagliaccio. La collaborazione di grandi aziende vitivinicole con il ristorante romano e la diretta supervisione del sommelier Luca, è un elemento caratterizzante del locale, che nel corso della cena ritroveremo con il Sauvignon Blanc e il Barbaresco di Pio Cesare, anch’essi studiati appositamente per Il Pagliaccio e marchiati con il suo logo.
Introduce sommessamente il percorso un “chawanmushi” con flan di broccolo sciliano, verza, cavolo nero e olio di prezzemolo. Un preludio a un seguito in crescendo.
Asparago bianco del Veneto al burro, cocco, aglio orsino, crema satay, coriandolo, curry giapponese. Molti ingredienti, tutti dosati in modo millimetrico, nessuno dei piatti di Genovese dà una sensazione di forte speziatura, ma di piccoli accenni, luci e ombre che si alternano, come in un quadro di Caravaggio, per fare un paragone azzardato.
Ostrica marinata nella soia e nel mirin, poi impanata nella tapioca, servita con insalata mista di menta, cerfoglio, shiso, aneto e polvere di coriandolo, acqua di uvetta, granita alla mela verde e burrata. Una tecnica sopraffina, un’intuizione in accostamenti difficili che sembrano facili. Molto gusto. Grandissima esecuzione.
Un must assoluto che ho ancora ben impresso nella memoria.
“Violet”: noodles mantecati nel burro viola di rapa rossa, cassis e cipolla rossa, con calamaro fresco, polvere di nero di seppia, brodo di calamaro e olio di calamaro arrostito. Un concentrato di calamaro totalmente privo delle sue note asperità, un brodo finissimo in cui dolcezza e sapidità duellano. Un piatto di caratura tecnica enorme.
Una zuppa di scoglio (bao al carbone vegetale con pesci di scoglio, schiuma di acqua di lupini, gamberi canolicchi, kefir) forse interlocutoria spinge verso altri due piatti immensi, che omaggiano direttamente Roma.
La faraona, puntarelle e alici di mare servita in due tempi, di una cottura semplicemente perfetta, con un jus in infusione con mollica di pane e semi di carvi adagiato a fianco con una punta di acidità semplicemente esemplare.
Il carciofo “alla Barigoule”, ovvero la versione di Genovese di uno dei più amati ingredienti della cucina romana, panato nella tapioca e nella maizena, servito con gel di carpione, polvere di pino mugo e foglie di menta, brodo di carciofi in infusione con foglie di aglio e menta, tè lapsang e pino mugo.. a leggere tutti questi ingredienti la testa quasi gira, ma l’effetto finale è quello che ti fa dire che sì, qui verresti a fare il menu vegetariano intero, perché il menu vegetariano se lo può permettere chi sa cucinare per davvero.
Il dolce-non dolce, come in tutte le cucine che ormai si rispettino è “Green”: opaline di semi misti, crema di avocado con erbe aromatiche, brunoise di sedano in osmosi con bitter al sedano e aneto, gelato al kefir con shiso, caramello alle erbe amare… con un effetto-pulizia raramente riscontrabile altrove.
Senz’altro “Il Pagliaccio” non è un locale ecumenico. E’ come un quartetto di Shostakovich, non è adatto a chi ascolta solo le arie di Pavarotti, non è pop. La cucina di Genovese non è per tutti, ma non vuole nemmeno essere solo per iniziati. Avvicinarla senza pregiudizi, vuole dire entrare a contatto con una delle più squisite arti culinarie che offre il nostro Paese. E su un’eventuale, ulteriore riconoscimento, mi taccio solo perché è di buon gusto essere un po’ scaramantici.
IL PAGLIACCIO
Via dei Banchi Vecchi 129/a
00186 ROMA
Tel. 06/68809595
Scheda dell’11 ottobre 2022
Anthony Genovese non si è fermato, continua a spingere come un matto, forte del successo che lo vede sempre pieno e di una squadra di cucina (dodici persone) perfettamente allineata a quella della sala diretta da Matteo Zappile, un sodalizio fra i due tra i più fortunati del mondo gastronomico che dura ormai da oltre tredici anni.
Forti di una frequentazione individuale e di gruppo abbastanza assidua e regolare, questa volta ci siamo diretti sul menu vegetariano con una aggiunta, l’anatra, perchè la nostra non è scelta ideologica e adoriamo come Anthony tratta le carni. Il doppio servizio del volatile ci ha appagato e consentito di bere il fantastico rosso calabrese scelto da Matteo Zappile a cui si siamo affidati.
La differenza con altri menu vegetariani, per esempio quello di Romito, è che non è ascetico, ma esprime tutto il carattere estroso ed esuberante di Genovese che lascia galoppare la fantasia oltre ogni limite con un sapiente e maturo uso di tecnica e di spezie che non sovrastano mai il risultato finale del piatto. La gioia di mangiare il vegetale senza contrizione o come atto punitivo. In una parola, si gode da pazzi, tra l’altro con una incredibile capacità di rendere autunnale l’atmosfera regionale del menu.
E, a differenza del menu vegetariano di Eleven Madison, non rincorre la carne come obiettivo, non ha desiderio di carne, ma tutto è teso ad esaltare le verdure di stagione.
Un altro merito di questo menu, sei portate a 160 euro, è il ritmo: pur avendo bevuto un po’ e non rinunciato alla splendida pasticceria finale, ci siamo alzati leggeri e abbiamo passato una notte tranquilla, a conferma che il vegetale è il miglior amico della nostre salute oltre che del nostro stato d’animo.
Ci vuole molto coraggio a presentare un menu vegetale a Roma, città di frattaglie, abbacchi, interiora di pollo, ma si compensa il tutto, volendo, con altri due menu degustazione a 200 euro (8 portate) in cui ci sono i piatti storici dello chef e altri viaggi fra Oriente e Occidente Latino. In ogni caso è una scelta di cui non vi pentirete, a cominciare dall’aperitivo in cui ogni finger è un vero e proprio piatto e dove più volte si prova il senso di umami che pochi come Genovese sanno davvero estrarre.
L’aperitivo si chiama il Giardino di Autunno ed è un continuo rimando ai sapori tipici di questa stagione in Italia.
Cosa si mangia al ristorante Il Pagliaccio
L’anatra in doppio servizio
Ritorno al percorso vegetale
Quando abbiamo provato il broccolo romano abbiamo capito perchè ci è stata servita prima l’anatra. Un sapore forte, intenso ma non volgare, compensato dalla freschezza dell’anice che regala balsamicità al piatto.
Per il vino avevamo chiesto un bianco invecchiato e un rosso elegante. Zappile ha fatto la mossa del cavallo con questo storico bianco e con il meraviglioso nerello calabrese di Tenuta del Travale di cui abbiamo avuto già modo di scrivere, sull’altra etichetta. Olio e vino calabrese, che vuoi di più?
CONCLUSIONI
Anthony Genovese è nel pieno della sua maturità espressiva, la sua irrequietezza si scatena nei piatti, fa impazzire la sala, mai fermo. Per chi ama il fine dining è sicuramente al top in Italia, che gli appassionati possono apprezzare per il rigore, i sapori essenziali e non barocchi, l’assenza di grassi e di sale (ad eccezione della cacio e pepe, che va alleggerita da questo punto di vista), è insomma una cucina che è gustosa perchè entra nella materia. Il servizio è perfetto, la carta dei vini monumentale e non scontata, una delle poche bene aperta al Sud. Ma soprattutto, e questa è una considerazione politica, è tra le pochissime proposte centro-meridionali che guarda al futuro senza timore, ma con piacere.
Oramai il ristorante il Pagliaccio di Anthony Genovese lo possiamo definire “storico”, sono quasi vent’anni infatti che solca sempre a vele spiegate il panorama gastronomico italiano. Non si vedono però i segni del tempo, anzi l’entusiasmo è quello dei ragazzini. Sempre pronti ad aprire di nuovo il sipario in quello che è a tutti gli effetti uno spettacolo in cui lasciarsi andare e affidarsi. Citando lo chef: il peggio che ci potrà capitare sarà quello di essere coccolati tra mille emozioni.
Una cucina complessa, completa, matura, personale. Un menù costruito in maniera personalizzata per ogni ospite. Il mio percorso è stato sempre in crescendo senza nessuna battuta d’arresto con due sorprendenti piatti vegani, all’inizio e alla fine. Chiaramente tutto costruito, raccontato, abbinato e magicamente sottolineato da Matteo Zappile.
Il Pagliaccio è ormai maggiorenne dunque, e qualche anno fa una ristrutturazione degli ambienti lo ha reso un posto ancora più elegante ma soprattutto confortevole ed intimo grazie alla cura dell’arredo, delle luci e dei dettagli. Non perde l’idea iniziale del circo offrendo agli ospiti un goloso abbandono al divertimento. Qui la cucina di Anthony Genovese viene proposta attraverso un percorso personalizzato organizzato da Matteo Zappile. Grazie alla sua esperienza e soprattutto, sensibilità, empatia, organizzazione e capacità di approfondimento, riesce a cucire su ogni tavolo o persona una batteria di piatti che rispecchino desideri e gusti diversi. Con il risultato, abbastanza frequente, di non servire neanche due menù identici durante la stessa serata.
Come benvenuto si inizia con Chawan Mushi, si tratta di un flan preparato con acqua di cannolicchi, crema di limone arrosto, ceci neri, semi di roveja e vongole alla scapece. Vediamo che un piatto della cucina giapponese, una sorta di budino salato preparato con latte e uova di base e servito come antipasto, parla italiano e guarda mare ed entroterra con la stessa intensità.
Si continua con il Circo di Sapori, un invito al divertimento gastronomico che si può assaporare senza seguire un ordine preciso. E ci divertiamo tanto nell’assaggiare una roulette di sapori in cui trovano posto bocconi dalla classicità evidente a quelli che sanno di oriente fino a guardare il nord e i toni amari tanto contemporanei.
Cosa si mangia al Pagliaccio di Anthony Genovese
Iniziamo con i piatti partendo da Colazione Mediterranea. Nel mio menù è il primo degli antipasti. Un piatto vegano composto da fette di pomodoro San Marzano fresco alternato a fette di anguria affumicate, alla base acqua di pomodoro e anguria con gocce di olio alla maggioranza, sopra la granita fatta di pomodori arrosto, il tutto accompagnato da una fetta di pane di segale arrosto con confettura di prugne disidratate. Tirare fuori complessità e spessore dai soli vegetali non è cosa semplice e in questo piatto c’è tutto il piacere fresco degli ingredienti che lo compongono sottolineati da una lunghezza e finezza aromatica molto interessante.
A/R Mazara Kuala Lumpur. Il Gambero Rosso di Mazara fa un viaggio di andata verso Kuala Lumpur venendo laccato con salsa satay arachidi e tamarindo, ritorna prendendo alla base acqua di mozzarella e cocco accompagnata da erbette di stagione, fagiolini arrosto e arachidi. Un piatto fresco, con mille sfaccettature sottolineate ad ogni boccone dalla parte grigliata dei fagiolini. Diverte soprattutto il fatto che i gamberi restino protagonisti, ad occhio gli altri ingredienti potrebbero coprirne la dolcezza, invece qui riescono ad esaltarla e si evidenzia il gusto animale del crostaceo.
Noodles con farina di grano duro mantecati con datteri gialli confit, acqua di scamorza affumicata olio all’alloro, caviale iraniano Asetra. Un piatto elegante nella presentazione e nel gusto con la dolcezza del datterino bilanciata dalla freschezza dell’acqua di provola con l’olio che allunga il gusto e il caviale che chiude il piatto con la sua nota iodica. Una carezza.
Il coniglio e l’anemone. Si tratta nel concreto di ravioli di farina di lenticchie con all’interno ragout di coniglio alla cacciatora conditi con brodo di anemone e telline e a completare lupini panati con mollica di pane e nero di seppia. Se il piatto precedente giocava sulla delicatezza e l’equilibrio qui si vira verso un gusto forte, animale, intenso ed estremamente affascinante.
Continuiamo con Zuppa di Scoglio: Dentice laccato con crema di datteri confit servito con crema di ceci, foglia di ostrica farcita con battuto di ostrica, accompagnato con cous cous aromatizzato con crema di limoni arrosto e fragoline di bosco. Il piatto viene chiuso da una riduzione del brodo dei pesci di scoglio a cui viene aggiunta una polvere di gamberetti e acciughe disidratate. Anche qui si gioca tutto sull’intensità, la forza rude degli elementi tenuta insieme da una perfetta concezione degli abbinamenti e da tecnica perfetta, di preparazione, di cottura e di servizi.
L’ultima portata salata del menu è una melanzana. Dopo sapori così complessi sarebbe stato difficile pensare ad un altro picco in salita sulla scala delle intensità e invece Essenza di Melanzana riesce a stupire. La melanzana oblunga viene marinata poi fritta, ricoperta dalla polvere di mais tostato, insalata di stagione, vinaigrette di melanzane e pomodorini e more sott’aceto. Accompagnata da una brioche sfogliata aromatizzata alle spezie e pomodoro. Un piatto così può essere concepito solo da una persona con un palato finissimo perché la scala delle acidità si incastra benissimo tra i toni dolci e amari per un risultato che lascia appagati e freschi pronti a dedicarsi all’ultima parte del percorso.
Anche sul fronte dolce non si gioca assolutamente di rimessa, anzi si continua a stimolare con la Bavarese al latte caprino, spuma di latte, albicocche sciroppate e granita al vermouth del professore. Un pre dessert dai tratti dissonanti che invoglia a consumare il tutto con voracità.
Ci avviamo alla conclusione con la freschezza di Chups, gelato al cioccolato bianco, all’interno un coulis di mirtilli e cardamomo, glassatura al mango e meringa e si finisce con il dolce che rappresenta la firma del Pagliaccio, dopo tutto siamo venuti al circo e il Palloncino alla fine è di rigore: Cioccolato fondente che racchiude mousse di cocco, perle di lime ghiacciato, riso soffiato al caramello e pasta di mandorla. In abbinamento un cocktail con vino di mandorle, arance rosse di Sicilia e foglie di alloro del Cilento.
Gli abbinamenti. La cucina di Anthony Genovese, lo dobbiamo ripetere? E’ compelssa intensa, personale e originale. Qui o si affonda a piene mani in una carta dei vini di livello scegliendo pensando solo al piacere di bere oppure ci si affida compeltamente e non mancheranno divertimento e stimoli.