Lina e Carmelo aprirono il Nano proprio di fianco all’ospedale San Luca nel 1969 e da allora sono stati sempre lì, sempre uguali. Mio padre all’epoca era primario radiologo in questa struttura, non c’erano le strade e la frenesia di oggi e quindi partiva il lunedì e rientrava il venerdì sera o sabato a Salerno dove abitavamo portando con se le prime mozzarelle di bufala che esistevano solo a Battipaglia da Villecco. Un altro mondo, davvero, appena mezzo secolo fa.
Tornare qui, sedersi al tavolo e seguire il calendario settimanale dei pasti è un po’ come rivivere queste atmosfere, quelle in cui al servizio non ci sono ragazzi sottopagati che ruotano alla velocità di una tromba d’aria, dove ogni cliente ha nome e cognome, che o si siede o fa asporto. La cucina familiare, insomma, quella che ha dato vita alle trattorie, una istituzione tipicamente italiana, che servivano a sfamare chi lavorava o studiava sotto casa, sino a quando Peppino Cantarelli non decise di affiancare a questa cucina le più grandi bottiglie francesi del momento iniziando una trasformazione radicale e avviando quel processo di evoluzione della trattoria in ristorante. Se ci fate caso, dei nove tre stelle italiani, sette sono riconducibili a conduzione familiare.
Qui il vino è sfuso,”buonissimo” e frequentare queste autentiche trattorie di paese è un po’ come fare dunque una ecografia di una donna incinta di due mesi, ricordarsi da dove siamo partiti in campo gastronomico.
Due sono i motivi per frequentare questi locali: la qualità della materia prima (“le uova sono nostre, mica le compriamo”) e l’autenticità. Sì quella autenticità che Pasolini vedeva nella civiltà rurale in via di estinzione e che lo fece schierare con poliziotti e carabinieri contro gli studenti negli scontri di Valle Giulia. L’autenticità che molti vedono in svaporamento nel mondo della pizza napoletana ma che è ancora presente e diffusa. Non si sa per quanto.
Ma in fondo, perché ci piace l’autenticità? Perché non appartiene alla sfera dei rapporti commerciali tra gli uomini, o, meglio, non appartiene alla sfera dei rapporti commerciali spinti. Quando in un Tre Stelle sei tutto alliccato e riverito sai che è professionalità, quando entri in questi posti e si ricordano di tua nonna che non vedono più è semplicemente educazione. Ed è questa dimensione dei rapporti che si sta progressivamente perdendo in tutti i campi nell’Italia dei call center premi uno sei vuoi parlare con x, premi 2 se vuoi parlare con y. Ecco perché è bello fare un pranzo qui.
Intendiamoci, l’autenticità non può essere un modello da seguire, ma è una testimonianza da conservare. Qui entri e ti senti subito come a casa, il tempo si ferma, i clienti non vanno di fretta (per la verità qui in Cilento è un ossimoro). La cucina è tutto espressa ed ha il sapore del cuore. Una cucina di servizio, che deve soddisfare il cliente per farlo tornare, come nel caso di mio padre che la usò come riferimento quotidiano per molti anni. E che dunque oltre a piacerti deve farti stare bene. Molto bene.
Piatti semplici, della tradizione con qualche contaminazione italiana come il fusillo alla Carbonara!
Le pizze sono ovviamente molto lontane dal modello scioglievole napoletano, ma la materia prima e l’impasto sono di qualità e il giorno dopo sono ancora più buone perché hanno una buona base panosa tipicamente paesana che le distingue dalla tradizione cittadina.
CONCLUSIONE
Prima che Lina e Carmelo decidano di chiudere i battenti dopo 50 anni di lavoro, venite qui se vi trovate nel Cilento. Se avete una causa al Tribunale o se dovete passare all’Ospedale oppure semplicemente se siete qui come turisti e visitatori. Sarà un vero e proprio entare in una macchina del tempo, godrete dell’atemosfera, della gentilezza e soprattutto del sapore che ogni piatto trasmette.
I prezzi? Molto difficile superare i 25 euro!
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