Via Mergellina 5
Telefono 081.681817, fax 081.661241
www.donsalvatore.it
Chiuso: il mercoledì. Aperto: pranzo e cena
Ferie: mai
Tutta n’ata storia. Sì perché qui non si tratta della semplice visita ad un ristorante di Napoli, Qui c’è un pezzo di storia della cucina napoletana e dei cambiamenti della città dagli anni ’50 ad oggi. Tutto comincia proprio nel 1950, quando Salvatore Aversano, pescatore a Mergellina con la passione della cucina, apre, prima soltanto nella bella stagione e poi stabilmente, “Don Salvatore a Mergellina” sulle palafitte a mare ,alle quali si accedeva dal marciapiede con le scalette che portano allo storico cantiere Di Pinto, i gloriosi artigiani degli incantevoli gozzi a vela napoletani con la stella scolpita in legno sul cavallino di prua.
In quegli anni quel marciapiede era occupato da distese di candide reti di cotone esposte al sole, che i tannini usati per preservarle dalla marcescenza rendevano scure e i galleggianti erano di sughero vero. Spesso, dopo le mareggiate capitava di dover recuperare dal mare tavoli e sedie. Nel 1961, cinque giorni prima dell’apertura, mi racconta la zia di Francesco Aversano, figlio del grande Tonino, arriva il decreto d’abbattimento delle palafitte. Salvatore non si arrende, di fronte, sull’altro marciapiede, ci sono i “malazeni” in tufo, con i tetti a volta, ricovero invernale per le barche e decide che Don Salvatore non può sparire, si sarebbe trasferito. Poco dopo, nel 1962 l’apertura del nuovo locale, paure, preoccupazioni: la fila per entrare arrivava fino alla piazzetta della funicolare di Mergellina, forse la più suggestiva di Napoli, che collega i quartieri della collina di Posillipo con il lungomare Caracciolo e il porto turistico, attraversando parchi e giardini privati, un percorso di circa600 Mt con panorama mozzafiato.
Dopo 48 anni, il locale è ancora qui, faro e affezionato custode della ristorazione partenopea della tradizione classica di eduardiana memoria. Dopo il trasloco, il ristorante è andato avanti sotto la guida di Salvatore e di suo figlio Antonio, da tutti detto affettuosamente Tonino. Alla scomparsa di Salvatore, “ il gentil pescatore”, Tonino va avanti con grande successo, insieme alle sorelle Maria Rosaria e Luisa fino al dicembre 2008, quando il Maestro Ristoratore e Papà della Sommellerie campana scompare lasciando il testimone a figli e nipoti. Vincenzo Esposito si occupa della gestione e della ristorazione, l’organizzazione commerciale e amministrativa passa al figlio di Tonino, Francesco Aversano, Amministratore Delegato di Mascalzone Latino, per dieci anni in giro per il mondo, poi rientrato a Napoli per alimentare, insieme ai familiari, la passione del nonno e del padre per l’autentica cucina napoletana.
Tonino era un cultore delle autentiche tradizioni, dei piatti storici, fedelmente interpretati, fatti di sostanza, dove i sapori sono tutti comprimari e distinti, in una parola armonici, abbinati grazie alla profonda conoscenza della ricchezza e diversità del patrimonio agricolo, ittico e caseario campano. Una fedele interpretazione della cucina dei napoletani prima “ mangia foglie” e poi “magna maccheroni”, insomma la cucina delle proprie radici, da non dimenticare mai, adeguandosi con intelligenza e creatività al passare del tempo. La memoria storica è fondamentale, qui nulla è andato perduto. A tenere il filo ci pensano appunto, il nipote Vincenzo Esposito, esperto di vini ed erede dei “segreti” di Tonino insieme allo chef Francesco Costa, ai fornelli di Don Salvatore da oltre 40 anni, l’aveva preceduto, fino agli anni ’90 lo chef Peppe Abruzzese, detto, per le sue origini “‘O Calabrese”. Lo chef mi racconta con gli occhi lucidi degli anni trascorsi insieme a Tonino, a discutere di piatti da creare, in giro per il mondo tra Europa, Stati Uniti e Giappone. Da qualche anno, al fianco di Francesco Costa c’è il giovane e appassionato sous Chef Vittorio Soriente. Il locale tiene in pari considerazione pizza e cucina, grazie a Tonino, profondo conoscitore della pizza, delle sue caratteristiche di cibo da strada, diventata pizza napoletana con l’avvento del pomodoro ai principi del 1700. La tradizionale pizza Margherita la fa da padrone, un altro personaggio storico è dietro al bancone da 34 anni, il Maestro Pizzaiolo Enrico Masiello.
La sua pizza Margherita è composta da: acqua, farina, lievito madre, sale. Per il condimento: pomodori pelati, tipo San Marzano, olio extravergine d’oliva, fiordilatte ( sì, fiordilatte) e in chiusura, pomodorini freschi, basilico e un bocconcino di mozzarella di bufala al centro della pizza. Sono rimasta sorpresa dal fiordilatte, Enrico Masiello sostiene con certezza che la pizza margherita si fa con il fiordilatte di Agerola, dei Monti Lattari, in quanto si scioglie più rapidamente e contiene meno acqua. Su questo punto la discussione è aperta e vivace, comunque, la pizza di Mast’Enrico è decisamente bbbbuona:). qui e qui le diverse tesi. Veniamo alla mia visita da Don Salvatore: entrando mi assale un’emozione, mancavo dal 2007… qui la scheda di Luciano Pignataro. Mi accoglie l’infaticabile e prezioso Maitre, Maurizio Platano, co – protagonista della storia di questo vivace luogo della memoria. La struttura architettonica la ricordavo bene, è quella degli antichi “malazeni” tipici di Napoli e delle isole del Golfo, adibiti a depositi e ricovero per le barche d’inverno, locali a fronte strada, vicini al mare con alti soffitti generalmente a volta incrociata. Tutto ricorda le origini e il mare: tanto legno, colori solari, stile sobrio, e poi il “lusso” dei finissimi lampadari di Murano stile anni ’60. All’ingresso il banco del pesce fresco e il tradizionale bancone del pizzaiolo a vista, più verace di così non si può. Naturalmente la struttura si è adeguata ai tempi, questo è sempre stato, grazie a Tonino, il luogo del vino e della buona tavola, ergo tutto è curato nei minimi particolari, mise en place elegante ed essenziale, servizio e tempistica ineccepibili, cosa rara da trovare di questi tempi in città.
Al tavolo mi aspetta Francesco , il figlio di Tonino, gli stessi occhi guizzanti del padre mi ricordano il lavoro dietro le quinte, la semplicità, l’amore smisurato per il mare e, allo stesso tempo, la rara determinazione commerciale e manageriale, decisa a non perdere l’inestimabile patrimonio umano ed enogastronomico racchiuso in questo locale. Mi accenna a nuovi progetti, mirati ad incrementare la clientela di città, specie quella delle fasce giovanili e poi, c’è il settore Don Salvatore Banqueting , una squadra diversa, guidata dal cugino Vincenzo Esposito e dallo chef Felice Franzese, che organizza eventi in una serie di dimore storiche, dove la linea di cucina è più innovativa, ma, sempre in continuo e mutuo confronto con la casa madre. Francesco manca da Napoli, da circa dieci anni, mi racconta di aver trovato la città cambiata e non in meglio, questo spinge sia, lui sia, tutti gli Aversano a proseguire nell’operazione di recupero, promozione e comunicazione di una Napoli diversa, quella vera, antica, ma non pittoresca, difficilissima da ritrovare e capace di rialzarsi dalle vergogne degli ultimi decenni. Comunicare tutto questo con un semplice ristorante? Certo, è eccessivo, ma è comunque un primo passo di una strada, quella del marketing di territorio e di esperienza che la Campania stenta ad intraprendere. Qui nessuno si è “arreso”, il team “Don Salvatore”, un’unico equipaggio – famiglia, composto da titolari e dipendenti, lavora quasi 24 ore al giorno, infaticabile, con un solo comune obiettivo: l’eccellenza. Il traguardo, nonostante la consapevolezza che ogni linea d’arrivo è solo un giro di boa di un viaggio lungo una vita, è senz’altro raggiunto. Tuttavia, cura, rispetto delle materie prime, fantasia, equilibrio di sapori e passione aumentano ogni giorno.
La mia degustazione
Grazie all’appetitosa spiegazione del Maestro Pizzaiolo Enrico Masiello, decido di cominciare proprio da un assaggio di pizza Margherita: l’impasto è soffice, tonda, tonda, come deve’essere, il “cornicione” rigonfio, di ottima qualità olio e pomodori, decisamente da ascrivere tra le pizzerie di città degne di questo nome. L’abbinamento, manco a dirlo, Asprinio di Aversa Spumante Brut. I tipi di pizza in carta sono una quindicina, le classiche e qualche contaminazione che strizza l’occhio alle richieste del pubblico e alle mode. Chiedo a Francesco Aversano se c’è una percezione, più o meno precisa, di quanto lavori la pizzeria e quanto il ristorante, in media – mi risponde il “ristoratore navigante” – 40% – 60%, la pizza si consuma più a cena e, tra l’altro, ha ormai preso piede tra la clientela la consuetudine di optare per i vari menù degustazione che comprendono: pizza, fritto misto e torta caprese (€ 16); pizza, frittura di gamberi e calamari e babà (€ 21). Il seguito della degustazione ha già un ordine prestabilito insieme ad una sfilata di vini bianchi, tutti campani. Do comunque uno sguardo alla carta dei vini e – no wonder – ci trovo molte meraviglie nazionali e straniere, oltre a qualche micro eccellenza campana da veri intenditori.
La prima entrèe potrebbe sembrare un piatto stile anni ’80 ( vedo già Maffi e qualcun altro storcere il naso) freschissimi gamberetti di nassa scottati, in insalata con vera rucola (quella nostrana, croccante e un po’ forte) e tocchetti di mela. Piacevole, rinfrescante, ricorda l’amore di Tonino Aversano per l’abbinamento tra frutta e ortaggi con crostacei e molluschi.
A seguire, millefoglie di polipo scottato e zucchine, alla quale abbiniamo una falanghina dei Campi Flegrei, minerale e sapida che contrasta alla grande con la tendenza dolce del piatto che trovo delicato ed equilibrato. In inverno e primavera al posto delle zucchine, arrivano carciofi e patate.
L’ultima entrèe è un piatto antico che risale alla cucina napoletana del ‘800 “‘e seccetelle arrutiate”: ovvero seppioline al tegame, con cipolla, pinoli e uva passa, sfumate al vino bianco. L’usanza di adoperare l’uva passa per addolcire i piatti è antichissima, risale, infatti, all’epoca bizantina. L’abbiamo abbinato ad una Falanghina Taburno doc, di corpo, opulenta e allo stesso tempo fresca, che ha sostenuto degnamente la struttura della preparazione.
Terminata la giostra delle entrèè, passiamo agli assaggi dei primi ( vedo la la mia dieta vacillare. non posso permettermi soggiorni dimagranti miracolosi…:) Mi limiterò ad assaggiare, lasciando i piatti quasi intatti, un delitto. Le prime due uscite sono ricette veramente storiche, riso alle “arselle” (telline) e “tubettoni alla chiaiese”, due ricette brodose, solo in apparenza poco adatte al caldo estivo, in realtà, assaggiate più fredde sono deliziosamente fresche e sanno di mare.
I tubettoni alla chiaiese prendono il nome da una strada napoletana, la Riviera di Chiaia, allora contigua alla spiaggia, (chiaia) , oggi un ingorgo di auto e continui lavori metropolitani. Le mogli dei pescatori, fuori dalle case, usavano bollire grossi pentoloni di cozze, una volta aperte, l’acqua non veniva buttata via, ma vi si aggiungevano olio, sale, aglio, qualche “pummarolella” e, ad ebollizione, si “calavano” i tubettoni e poi si univano poi le cozze, un piatto caldo per ristorare la fatica dei mariti al rientro da una giornata di pesca.
La Falanghina del Taburno ha sostenuto sia il riso che i tubettoni, per cedere il passo ad un più strutturato Greco di Tufo atto a reggere “‘O pacchero ‘o monaco”, profumati paccheri con gamberoni, scampi e olive nere, appena rosati, la ricetta prende il nome da un collaboratore storico del ristorante, detto “‘ monaco”. Piatto assolutamente tradizionale, leggero nell’esecuzione, mare allo stato puro.
Chiudiamo la carrellata dei primi con una ricetta del 1834: ’o maccarunciello ‘ncaciato co’ cuoccio ( pasta con cacio e coccio, pesce carnoso, in italiano, gallinella o cappone imperiale). L’esecuzione, apparentemente semplice, è in realtà insidiosa, si possono usare, come in questo caso, anche le linguine ed è necessariogiocare empiricamente con l’equilibrio tra i sapori del pesce, del formaggio, della pasta e del pomodoro, perché nessuno prevarichi l’altro, lo chef ha fatto centro. Qui l’abbinamento è impegnativo, un cru di falerno bianco 2006 riesce nell’intento.
A proposito di “cuoccio”, il Maitre Maurizio Platano entra spingendo un carrello con uno splendido esemplare appena pescato e cucinato “‘a marenara”, ossia con aglio, olio, sale e abbondante pomodoro fresco, – fosse stato con meno pomodoro” – mi dice il Maurizio – avremmo avuto la classica “ acqua pazza”. E se qualcuno non mangia pesce? Mi risponde Francesco, “abbiamo sempre in carta i piatti tradizionali napoletani di terra, i paccheri con ragù e ricotta, fettuccine con funghi porcini e zucca, minestre di pasta, la lasagna a carnevale, la carne “alla pizzaiola” , filetti e tagliate alla griglia, o, in salsa di aglianico.
Immagino di essere in dirittura d’arrivo e invece no…arriva il piatto forte, una creazione dello stesso Tonino Aversano, gamberoni imperiali rosso fuoco da Mazara del Vallo, al vapore con passatina di ceci. Un’esplosione di colori e sapori, morbidi e ben bilanciati, sostenuti splendidamente da un pallagrello bianco 2006.
Siamo veramente “alla frutta”, lo chef mi racconta di altri due secondi molto particolari e attraenti: l’orata gratinata con mandorle e zucchine lamellate, in pastella e fritte e il baccalà “‘a cannaruta”, un piatto menzionato dal Duca di Buonvicino per il menù della Settimana Santa nel 1839. Il baccalà viene spugnato per 24 ore, spolpato e cotto in padella con pane grattugiato, aglio, olio e una spruzzata di limone.
Vi starete chiedendo, ma in un posto così, quanto si spende? In media 15 euro per la pizza e 45 euro per un menù di mare, considerando che oggi quasi più nessuno riesce a mangiare un menù completo dall’antipasto al dessert. Nel caso siate tra quelli che riescono nell’impresa, allora per un sontuoso pranzo di mare, dovrete investire tra i 50 e 60 euro esclusi i vini e qualsiasi pentimento.
Il racconto dello chef si chiude in dolcezza con l’ingresso di una spettacolare “zuppa inglese” napoletana, davanti alla quale fotografo un pezzo della grande squadra degli Aversano, una famiglia che l’amore per la cucina napoletana, per il vino e per il mare ce l’ha nel sangue.
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