di Giulia Gavagnin
La mia prima volta Dal Pescatore fu una quindicina d’anni fa. Più che di stelle Michelin ricordo le stelle del cielo, soprattutto quella Polare a guidarci, dacchè da poco s’era interrotta una copiosa nevicata: le strade mantovane erano innevate e giungere a Runate davanti alla dimora dei Santini fu come trovare un rifugio per un infreddolito viandante.
Ricordo che non s’arrivava mai, e poi tutto d’un tratto ad accoglierti c’era Antonio Santini con l’impeccabile abito scuro e la terragna tenacia, dietro le quinte il garbo di Nadia con la divisa da cuoca -non da chef- ricamata e profumata e il verbo di quel che era il mio modello di narratore del buon mangiare, il controverso Camillo Langone che della gemma della Mantova cuciniera scriveva: “Spesso la serietà non è romantica ma in questo caso ha un cuore: Nadia Santini che un giorno –un fausto giorno- decise di piantare gli studi di scienze politiche e di imparare dalla suocera a fare i tortelli di zucca. Il risultato è la sfoglia più sottile che il maccheronico abbia mai messo sotto i denti”.
Siamo cambiati noi: a quel tempo facevamo Venezia-Canneto Canneto-Venezia inserata anche con la neve e una mela Fuji di Capovilla come carburante per il ritorno(storie di vita vissuta). E’ cambiato il mondo, ca
vans dire, e non solo perché le oscene norme del Codice della Strada recentemente approvate mettono in guardia da tali romantiche traversate della Padania.
Ci piacerebbe dire, ad effetto, che l’unica cosa che non è cambiata è Dal Pescatore, che un po’ è vero ma, suvvia, qualche micro-variazione sul tema è giunta anche in casa Santini.
Benché stavolta a guidarci sia stato il sole alto nel cielo e non la stella Polare in una fredda e pungente giornata novembrina il primo dato immutabile è che -ancora oggi- a Runate sembra di non arrivare mai, come fossimo nel labirinto del Minotauro o, peggio, in un paradosso di Zenone, abituati come siamo ad avere ormai tutto a portata di mano o, peggio, di clic.
E’ il ritmo della natura, più che dell’antropizzazione che ha portato l’uomo all’alienazione da se stesso per inseguire il mito della technè.
Infatti, quando alla fine del reticolo di strade di campagna a Runate vi si giunge, il saluto consapevole di Alberto Santini –figlio e ormai consumato maitre-sommelier- è“Benvenuti in campagna”.
Rispetto ad allora sono intervenuti taluni restauri discreti in sala, una scelta di quadri anche esotici (in questo periodo è omaggiato un barocco e lussureggiante artista siculo) e un allevamento condotto personalmente da Giovanni Santini –l’altro figlio, questo cuciniere- che con dovizia di particolari mi spiega tutte le razze bovine da questi amorevolmente selezionate. Nadia con il suo caschetto e lo sguardo vivace fasempre capolino dalla cucina. Questa è una famiglia che non molla, con padana determinazione.
Non v’è dubbio, me lo dico subito, visto che da allora qualche anno è trascorso e per i miei organi vitali qualche centinaio di ristoranti pure. I Santini sono i Troisgrosd’Italia. Siamo già alla quarta generazione, Canneto è come Ouches, si identifica con il ristorante, i Santini sono Canneto, sono l’unico motivo di pellegrinaggio da queste parti e allevano pure in proprio esattamente come Pierre&Co., la cui rilevanza, i francesi non la metteranno mai in dubbio. Ma noi siamo italiani e facciamo i conti con il solito, annoso problema: in Italia creare il mito per chi omaggia la tradizione e la rende un classico è un problema culturale oltre che religioso. Guai a esaltare troppo chi realizza pienamente se stesso e mostra agli altri come si trova la strada. Si fa peccato e Dio castiga. Meglio, molto meglio guardare sempre al proprio ego e esaltare il saltimbanco di turno quando lo fa strano, sempre in nome dell’Avantgarde e della speranza dello sciocco: l’avevo detto, io, che costui avrebbe fatto strada. Io e il mio Virgilio gastronomico che m’accompagna fido per scorribande che da soli, per noia o culto della condivisione mangereccia non sapremmo affrontare ci guardiamo scorati e afflitti. Pensiamo a certi nostri “conoscenti” che in nome dell’Ordine Nuovo hanno scritto su più supporti –cartacei o virtuali- che forse quest’anno ai Santini toglierannouna stella perché non sono più à-là-page. Continuano a fare i ravioli di zucca alla mantovana –con la mostarda nel ripieno- ma che senso avrà mai continuare a premiarli con il massimo riconoscimento visto che non hanno mai sferificato nulla?
E invece, siccome i francesi hanno complessivamente sul groppone trecento anni di cultura eno-gastronomica e di promozione commerciale della stessa più di noi e, indi, sono gente più seria e preparata, queste fastidiose zanzare le scacciano con un battito di mani. Che a casa nostra sono appalusi, perché a margine dei ravioli di zucca per cui tutto il mondo dopo ventotto anni di Tre stelle Michelin (dal 1996, il più longevo d’Italia, sì) continua a venire qui (venerdì a pranzo sala piena e sold out per le prossime quattro settimane), sfilano una serie di piatti che dipingono la tradizione padana in un modo che sarebbe piaciuto a Mario Soldati, cantore della valle del Po che è la nostra vera Food Valley anche se qui siamo sull’Oglio ma l‘humus è lo stesso.
A iniziare non una tavolozza infinita di stucchevoli amuse bouche (ne siamo satolli, sì), ma un piatto di prosciutto con grissini alle olive, qualche tuiles di parmigiano e un paio di tartellette, una con lingua e una con acciuga.
A seguire, com’è ovvio, piatti ante secessione spagnola. Piatti italiani, padani. Che profumano anche di nebbia e di pioggia, del clima locale. A km non zero, anche sotto lo zero.
Lumache con aglio e prezzemolo in cui l’aglio sa di aglio e il prezzemolo di prezzemolo, una scaloppa di foie gras con una golosissima salsa al Capitel Foscarini di Anselmi (offerto in pairing) e un accenno di passion fruit, i tortelli di cui s’è detto, gli agnoli in brodo di gallina cui per creanza non abbiamo aggiunto il lambrusco d’ordinanza perché il brodo era una favola, dei triangoli della medesima sfoglia sottilissima con ricotta, pecorino, parmigiano e una grattata di tartufo bianco del Roero; l’anguilla alla griglia con una panure leggerissima che ha asportato qualsiasi traccia di grassezza propria del pesce migratore; e un filetto di Scottona dei loro pascoli, preso soprattutto per sfida perché la carne di manzo nei ristoranti stellati è spesso anonima e deludente e qui invece rivela una maestria sospettata, che dimostra strada facendo quanto la serietà, la concentrazione e il duro lavoro portino il lavoro dell’artigiano alla massima espressione.
A chiudere, il principe dei dessert di scuola transalpina, il soufflè all’arancia, che in un solo indirizzo italiano ho trovato all’altezza (lo dirò subito: alla Peca a Lonigo) che in un ristorante classico non dovrebbe mai mancare e, invece, in nome della gastro-decomposizione è ignobilmente omesso in favore di osceni agglomerati simil-eduli che odorano di penitenza. Del resto, lo capiamo: il soufflè bisogna saperlo fare.
Anche tutti gli altri dolci sono veri: sfilano in carta torta di amaretti, meringa con mousse di pistacchio di Bronte, torta di nocciole e pere con ganache al cioccolato, un più leggero “maccheroni” di ananas, crema chantilly e frullato di lamponi.
La carta dei vini curata da Alberto è ampia, magari con qualche vecchia gloria tramontata di troppo, ma con un’intelligente e curiosa selezione per annata, non per produttore.
Dal Pescatore ancora oggi racconta l’Italia che fu e che è, attraverso il grande stile mutuato dalla Francia cui Santini si dichiara a tutt’oggi ammiratore, debitore e amico. Paul Bocuse lo riteneva “il miglior ristorante del mondo”, tanto per dire.
E’ il grande ristorante totalmente “de-ibericizzato”, tutto ciò che ha cristallizzato nella sua perfezione è avvenuto prima di Adrià e della rivoluzione spagnola, sarebbe inutile e sciocco chiedere ai Santini un tributo a una cultura che non è la loro e che ha invece influenzato tanti chef che amiamo, da Bottura a Cedroni a Uliassi, che però sono venuti dopo. E’ l’Italia prima di Adrià che italiano non è, è l’Italia vera nel momento in cui stava diventando borghese e che da quella borghesia si sta pericolosamente allontanando.
Qualche giovane “intellettuale” non li capisce e li trova banali perché dire a codesti che i Santini sono i Cantarelli di Samboseto che hanno risciacquato i panni nel Rodano può significare poco o nulla, ma non è che se i panni li risciacqui nel Dueropuoi diventare un classico italiano.
Chi nutre dubbi nei confronti dei Santini, semplicemente non li conosce, non c’è stato e dice di esserci andato, se c’è andato non ha capito niente perché non appartengono alla cultura dei social, ma a quella vera che è fatica farsi.
Dal Pescatore è il luogo dove andare per capire da dove veniamo, chi siamo e forse non saremo più.
Dal Pescatore Santini
Via Runate 15
46013 Canneto sull’Oglio (MN)
0376 – 723001
Scheda del 14 aprile 2016
Dal Pescatore Santini a Canneto sull’Oglio, vent’anni da Tre Stelle Michelin
Dal Pescatore Santini a Canneto sull’Oglio
Località Runate – Riserva del Parco Oglio Sud
Telefono : +39 0376 723001
www.dalpescatore.com
Ci sono posti dove entri in giacca e cravatta e resteresti in pantofole. Io ne conosco quattro e hanno tutti alla base la forza e la coesione della famiglia, l’unica istituzione che regge questo Paese dalla sua fondazione: Don Alfonso, Oasis di Vallesaccarda, La Trota a Rivodutri e dai Santini a Canneto sull’Oglio. Era un bel po’ che desideravo tornare in questo luogo nel cuore della Pianura Padana in provincia di Mantova dove si respira la storia della gastronomia italiana del Dopoguerra, lontano dalle ansie e dalle pressioni dello chef system che impazza in tv e sui social. Il piacere borghese di un servizio perfetto, il piacere italiano del mestiere e della convivialità di un servizio non ingessato.
Per una strana combinazione, la nuova generazione gioca a parti invertite con Alberto che somiglia alla mamma Nadia in sala e Giovani che ricorda più il padre Antonio in cucina.
Storia dicevamo, che inizia nel 1925 con il nonno, Antonio, pescatore, che apre questa trattoria con la nonna Teresa. Nell’Italia rurale i nomi si prendevano dentro il nucleo familiare secondo il principio della scaletta e non dalle trasmissioni televisive di Gianni Boncompagni che ha riempito l’Italia di Deboarh, Barbara e Jessica. Così ad Antonio succede Giovanni e a Giovanni, nella metà degli anni ’70, Antonio che con Nadia gira un lungo e in largo la Francia, proprio come fecero Livia e Alfonso Iaccarino. Tra i riferimenti che siedono ogni sera ai tavoli, Gino Veronelli, Gianni Brera, Corrado Barberis, uno dei primi a capire l’importanza del patrimonio rurale italiano comemotore di sviluppo economico.
E infatti la famiglia Santini non esibisce sul sito i riconoscimenti delle guide, neanche le Tre Stelle Michelin che hanno conquistato dal 1996, Nadia la prima donna al mondo a ottenerle, e mantenuto con solidità per tutti questi due decenni. Sono risultati che fanno piacere ma che sono vissuti come conferma, non come trampolino di lancio.
Nel 1980 Antonio fonda con Gaetano Martini , Roberto Ferrari ,Franco Colombani e altri amici l’associazione Linea Italia in cucina e nel 1982 con Gualtiero Marchesi e altri cuochi l’associazione “Le Soste” Nel 1990 il ristorante entra a fare parte di Relais & Chateaux come Relais Gourmand e nel 1992 di Tradition & Qualitè, oggi Les Grandes Tables du Monde di cui è animatore.
Ma qual è il segreto Dal Pescatore Santini a Canneto sull’Oglio? Secondo noi restare fermi sul principio dell’accoglienza proprio in un momento in cui questo elemento è passato in secondo piano rispetto alla cucina in una concezione che scompone il servizio classico e che vede i cuochi portare direttamente i piatti a tavola o che costringe i clienti ad attendere l’orario di apertura in piedi senza neanche un bicchiere d’acqua al cella de Roca in attesa della esperienza gastronomica. In queste grandi tavole italiane, invece, il concetto di ristorante è intimamente legato al benessere fisico di godere di tutti gli aspetti di una cena.
Antonio è un abile conversatore, ha mille aneddoti da raccontare dal suo repertorio infinito nel quale è passata tutto l’Italia che conta. La cucina di Nadia non è di avanguardia, ma neanche statica, ha nella sua classicità, continui aggiornamenti con un riferimento costante e continuo alla tradizione francese e alla grande materia prima che parte dal chilometro zero e arriva sin dove c’è la possibilità di avere il massimo. come il meraviglioso capretto borgognone di cui abbiamo goduto nel finale.
C’è un rischio quando ad una certa età si valutano queste tavole. Ed è il rischio del coinvolgimento generazione, avere quasi la certezza che, ebbene sì, il tempo non si è fermato e tutto è uguale alla prima volta in cui hai provato queste cucine. Ma non è così perché i classici sono di continuo arricchiti da nuovi piatti per i quali non si può assolutamente parlare di staticità, ma di una filosofia palatale che non concede scorciatoie sulle acidità e le affumicature, sull’amaro e l’essenziale.
E come per il vino, anche nella cucina noi siamo sostenitori del ben fatto se ben progettato e coerente. E qui il progetto riguarda l’esaltazione della tradizione italiana nel momento in cui, grazie alla influenza francese, si è liberata dalla cucina familiare di trattoria senza per questo rinunciare ai tratti distintivi e identitari.
Sicchè si passa dai grandi classici a piatti in cui la tecnica è assolutamente perfetta, come quello dell’anguilla e del capretto.
Le coscette di rana sono semplicemente perfette.
Quando al capitolo dolci, non c’è che da segnalarne la freschezza e i sapori distinti e piacevoli.
CONCLUSIONI
L’esperienza Dal Pescatore Santini a Canneto sull’Oglio è di valore assoluto e completa. Un riferimento per chiunque voglia occuparsi di gastronomia e voglia conoscere le basi da cui poi può partire ogni ragionamento, una sorta di categoria kantiana del gusto e dell’accoglienza. Il servizio, la monumentale cantina, la capacità di abbinamento, l’ambiente: tutto concorre a qualcosa che non può avere altra definizione: la perfezione del classico a cui non è difficile prevedere altri vent’anni di Tre Stelle Michelin.
Foto di Adele Elisabetta Granieri
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