Da Vittorio a Brusaporto
Via Cantalupa, 17, 24060
Telefono: 035 681024
www.davittorio.com
di Giulia Gavagnin e Luciano Pignataro
Esiste il ristorante perfetto? Sicuramente no, ma esistono ristoranti che anelano alla perfezione. Sono quelli in cui l’esperienza gastronomica, per quanto eccelsa, non ha ragione d’essere se non inserita in una cornice opulenta e maniacale in cui ogni dettaglio, ogni ritaglio, ogni attenzione, sia già di per se stessa un motivo per essere scelti. E’ questo lo stile borghese che la Francia ha imposto ovunque nel mondo.
Uno stile contestato all’epoca dell’ennesima metempsicosi di questo ceto che domina ormai culturalmente ed economicamente da oltre due secoli incontrastato. Contestato nell’epoca del capitalismo finanziario che non ha più orari, luoghi, spazi e che non usa più le ghette ma lo smartphone. E che non produce per guadagnare ma che guadagna per guadagnare, che punta all’essenziale. Così, piano piano, nascono i ristoranti gastronomici, un po’ per povertà di cultura, un po’ per carenza di soldi, dove tutto è sacrificato al piatto, spesso portato direttamente dai cuochi perché nessun cameriere, per quanto bravo, potrà interpretare la grande creazione d’autore concessa magnanimamente all’avventore appoggiato su un trespolo che si deve trattenere le forchette ad ogni cambio piatto per non mangiare con le mani.
Quanto la Francia abbia influenzato l’Italia non abbiamo bisogno di dirlo, ma nel nostro paese il ristorante è stata una evoluzione della trattoria a gestione familiare, a parte alcuni recenti ristoranti d’albergo e con soci investitori. C’è forse una linea sottile, non evidenziata, che divide gli stessi tristellati italiani tra quelli di ispirazione d’Oltralpe (La Pergola, Locanda del Pescatore, Da Vittorio) e gli altri che hanno, per quanto ricchi di attenzione ai clienti, il piatto come elemento ultimo dell’orgasmo. Diciamo ristoranti gastronomici.
Da Vittorio è da questo punto di vista una esperienza esemplare.
Tempo fa uno dei fratelli Cerea riferì di essere sempre stato circondato, fin da piccolo, di ogni bendidio. Casse di tartufi, porcini dell’Appennino, aragoste a profusione, e i migliori tagli di carne scelti personalmente da papà Vittorio, nato garzone di un piccolo macellaio e diventato il Re dei ristoratori d’Italia. Tutto questo accadeva negli anni Settanta, l’ex garzone aveva acquisito un locale a Bergamo Alta, nel 1966 intitola a se stesso un ristorante rivoluzionario che di francese aveva già la grandeur, non già per la pratica della nouvelle cuisine, ma per la selezione di mangiari da re, pesce e foie gras, nella terra dei casoncelli che di lì a poco sarebbe diventata la provincia più industrializzata e ricca d’Italia. I nuovi re, per fortuna senza spargimenti di sangue, erano diventati le famiglie borghesi, e Vittorio Cerea ne è stato il primo vero cerimoniere e coppiere. Ha avuto come moglie Bruna, una vera lady di ferro e cinque figli, tutti collocati negli ingranaggi della macchina perfetta. Una famiglia borghese a servizio dei borghesi, che detta così, ai feticisti dell’avanguardia spesso in camicia a quadrettoni e jeans sdruciti potrebbe far storcere il naso. Oggi, Da Vittorio è il più grande ristorante borghese d’Italia, e per fortuna, questo significa che c’è ancora una locomotiva in questo paese che rincorre il reddito di cittadinanza.
Il patriarca è scomparso, ma le redini della sala sono caparbiamente affidate all’asse Bruna-Rossella, che dirigono un servizio caloroso, inappuntabile e mai banale (ovvero: la sala come dovrebbe essere, camerieri quasi danzanti con occhi davanti e dietro) e in cucina Chicco e Bobo a portare a perfezione piatti di armonia assoluta, privi di dissonanze, e per questo negletti da certi compilatori di guide gastronomiche sempre alla ricerca della punta di acido acetico intriso di umami che a loro, soltanto a loro, produce l’oscuro “effetto wow”: e giù lodi sperticate, soprattutto quando a capire è solo la cricca degli iniziati. Siccome alla buona borghesia, quella ancora produttiva e non finanziaria, da quella che viene in tavoli da otto (a 250 euro a persona, ticket medio) a festeggiare il compleanno della nonna a quella che decide il futuro dell’esportazione dei ricambi per macchine industriali, ovverosia il ceto produttivo vero, di quelle sofisticazioni non importa granchè, ecco, questa borghesia viene Da Vittorio. Che è sempre pieno, a pranzo e a cena, non solo per i famosissimi paccheri pomodoro e parmigiano mantecati al tavolo, uno di quei piatti così semplici e perfetti da essere irreplicabili aliunde, né per la lunghissima, grandissima, buonissima “orecchia d’elefante” per due (in realtà per quattro) che da ora in poi sarà disponibile soltanto su ordinazione.
Si viene qui per la continuità con quel passato di casse di tartufi, porcini dell’appennino, aragoste, crostacei dell’Adriatico e del Tirreno, che rivivono più vitali che mai, sotto diverse spoglie, sia alla carte che nel menu infinito, a sorpresa, denominato “carte blanche”, tanto per non tradire dubbi sulla regione d’ispirazione, di quelli che, come diceva Paolo Conte “ci rispettano, ma le pal.e ancor gli girano”. E potrebbe essere proprio così, perché anche se la sostanza è differente, sembra di essere a metà tra il teatro di Bocuse con i suoi maggiordomi e le cadenze di Blanc a Vonnas.
Ecco perché, proprio per il fatto di essere tra i più francesi dei ristoranti Da Vittorio è un grande ristorante italiano. Ha certo l’anima lombarda, ma il meglio viene da ogni angolo sperduto dello Stivale, proprio come accade nei tre stelle parigini. Ora deve crescere, si va Shangai, ma si deve regolare anche il conto con le sue origini: ed ecco che i suoi due piatti simbolo cotoletta e paccaro, escono, come detto, dal menu ufficiale.
Oggi lasciamo carta bianca ma ritroviamo massiccia presenza di foie gras nella castagna amuse-bouche, nello scampo melograno e gelato alla zucca e nel parfait, forse l’unico piatto non perfettamente riuscito del lotto, ma ci mancherebbe, una microeccedenza di materia grassa capita a tutti. Gli spaghetti sono di tonno crudo, con bagna cauda e crumble di pistacchio, materia pura impreziosita, non addensata con agar-agar e altre trovate che vogliono far credere che “quello che non era, è”. Le contaminazioni territoriali dell’epoca pre-Vittorio sono spesso presenti: casoncello con taleggio, mais e tartufo scorzone, risotto castagne, pancia di maiale e riduzione di Moscato di Scanzo, rombo in cassoeula. Il più grande ristorante d’Italia (non il migliore, il “più Grande”) non può astenersi dal principe dell’alta cucina, ovverosia il piccione, declinato secondo “tutto il suo buono”: petto, coscia, fegato. G. Blanc sarebbe stato soddisfatto, e lo possono essere i fratelli Cerea, chè anche se non tutti se ne sono accorti, hanno già travalicato il senso della ristorazione pura e creato un vero e proprio teatro disneyano della gastronomia ammantato di grandeur.
E i superciliosi alla chips di barbabietola continuino pure a borbottare: questo stile non tramonterà mai perché a tutti piace essere corteggiati.
Da Vittorio a Brusaporto Famiglia Cerea
Da Vittorio a Brusaporto Famiglia Cerea
Via Cantalupa, 17, 24060
Telefono: 035 681024
www.davittorio.com
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