di Marco Galetti
Napoli, Pizzeria Di Fantasia, venti pizze in carta ma la Margherita è uscita di scena in punta di petali.
Parto con una provocazione che non sarebbe credibile nemmeno in sogno.
Certo, alcuni usano un pomodoro diverso, altri diversificano gettando sul tavolo verde basilico un tris di pomodori a cottura differenziata e a cromatismo variabile, si combatte su cornicioni pericolanti, si sperimenta con qualche ingrediente a la page, si pompa il canotto aiutati da fufblogger (by LP) ma nessuno, dico nessuno, si sognerebbe mai di non proporre in lista il fiore che mette d’accordo tutti, sia giovani pizzaioli emergenti che trovano la forza di aprire un locale alla moda, che locali centenari che trovano la forza di resistere, tutti coesistono, si rispettano e rispettano la tradizione.
Qui su al Nord, invece, guardiamo avanti senza curarci di buttare l’occhio nello specchietto retrovisore, che non mostra solo pericoli in arrivo ma anche se stiamo ancora percorrendo la strada giusta, qui su, dicevo, nella gran parte dei locali il riso alla milanese non lo propongono più, a vantaggio apparente di preparazioni strampalate che strizzano l’occhio alle mode passeggere che utilizzano fiori eduli, curcuma, crudo e cotto di gamberi, guanciale, formaggi remix, alghe, tartare di salmone e salsa tartara.
Ci sta, se un risotto giallo lo sapete fare e ce lo fate trovare in carta ci sta, ma non ci sta se l’unico riso che tenete in lista, invece di prepararlo con carnaroli, midollo e zafferano di nicchia, ce lo propinate usando una testa di minchi@ con un parboiled dai mille colori e da nessun sapore, o peggio incolore e con un unico ingrediente, anguilla, anomalo, come l’onda del vostro risotto, dal sapore sgusciante che risale il Mar dei Sargassi e lo stomaco di chi sperava di averlo digerito.
Per forza succede tutto questo, pensavo ieri dopo la predica domenicale di Don Giandomenico, che ci ha ricordato l’essenzialità di tramandare per non dimenticare, l’importanza che qualcuno racconti ciò che è stato a chi sarà dopo di noi, regalare parole per condividere fatti, altrimenti non perpetuando usi, modi, tradizioni, comportamenti più o meno civili, ci s’imbarbarisce e le giovani spose, oltre a non sapere nulla del loro albero genealogico, avendo tagliato i rami prima ancora che diventino secchi, cucinano per i loro mariti, imbustati a temperatura ambiente e a bassa resa.
Il riso arriva da lontano, ma prima di arrivare agli Sforza è stato coltivato nel Napoletano, mi duole dirlo, ma al Sud, l’amore per le tradizioni, non avrebbe permesso che a Milano un risomane dovesse cercare l’oro giallo nel piatto col lanternino, ognuno in cima alla lista deve tenere il suo cavallo di battaglia, a Nord risotto, margherita Sud, che a ben guardare, non sono piatti così distanti, entrambi devono essere fatti espressi, altrimenti la differenza la sente anche un mangiatore di licheni col raffreddore, la base della pizza impasto, pomodoro e mozzarella, è più che sufficiente ed appagante, così è per riso e zafferano, poi, volendo, sia sulla pizza che sul risotto ci si può sbizzarrire, volendo.
Pizza e risotto devono essere serviti subito e andrebbero degustati senza indugi non appena arrivano al tavolo, la masticazione, per via della scioglievolezza di ambedue le preparazioni, è diciamo relativa, la fusione consente di percepire tutto quel che va percepito ad ogni boccone si sentono gli ingredienti ma non c’è separazione, nessun grado di separazione…
Così, per amore di questo piatto, per quel che posso divulgo, qualche accorgimento personale, stellato e bistellato non può fare che bene, Berton usa per mantecare un burro acidulato con riduzione d’aceto, i Costardi, dopo una tostatura nell’olio (evitano il burro che tende a bruciare velocemente) non sempre sfumano col vino (niente vino ad esempio nel loro riso al pomodoro) e frullano la cipolla che si scioglie senza bruciare, quasi tutti salano inizialmente, usano Carnaroli, Vialone nano o Baldo, la maggioranza aggiunge il brodo quando il riso lo chiede e cuoce in una pentola bassa e larga, il riso va lasciato riposare un minuto fuori dal fuoco e poi mantecato, il riso va girato con un movimento fluido e delicato dall’inizio alla fine, alcuni cuochi affermano che se si gira in continuazione il chicco si rovina, non si rovina, garantisco, sempre che non gli manchi il brodo, il riso va assaggiato qualunque sia il bagaglio d’esperienza nel campo, ma nella risaia è meglio.
Il risultato deve essere morbido, cremoso, si deve intravedere almeno un’ondina nel mare giallo oro anche senza la foglia di Marchesi che disapprova sicuramente i grilli nel piatto e nella testa, soprattutto se si parla di riso.
Lo zafferano in pistilli deve essere stemperato nel brodo e messo a fine cottura, un paio di bustine per tre etti di riso daranno un risultato simile, lontano dalla perfezione ma più vicino alla tradizione familiare che non prevedeva pistilli né midollo, se non nei dì di festa che regalavano gioiose riunioni familiari, gli anziani ai fornelli e indimenticabili risotti sopra media.
Rimanendo in media ieri è stato sperimentato con successo l’accorgimento Gennaro Esposito, che definirei San Gennaro Esposito, il metodo salva cipolla che da Vico Equense in festa, risale lo stivale in soccorso di un mezzo toscano che non deve dimenticare anche le sue origini lombarde, lo chef campano, per evitare di bruciarla, aggiunge la cipolla ben tritata solo a meta tostatura del riso, funziona, poi terminata la tostatura si procede in modo tradizionale, il brodo bollente (di sedano, carota e cipolla andrà benissimo) viene aggiunto man mano mantenendo il riso sotto la linea di galleggiamento, si porta a cottura, si assaggia, si lascia riposare fuori fuoco e si manteca energicamente con burro e grana padano (tradizione lombarda) oppure con olio e poco parmigiano reggiano come ho fatto io ieri.
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