IPPOLITO 1845
Uva: gaglioppo
Fascia di prezzo: da 10 a 15 euro
Fermentazione e maturazione: cemento e legno
Mancuso è un territorio collinare fra Cirò e Cirò Marina tutto sommato solo di recente acquisito alla storia secolare viticoltura cirotana, soprattutto rispetto ai rinomati e famosi Difesa e Feudo oltre che Vallo. Qui Vincenzo Ippolito ha comprato una vasta area nel Dopoguerra seminata principalmente a grano, iniziò a trasformarla progressivamente imponendo un cambio di passo alla storica azienda fondata da suo nonno, Vincenzo come lui. Un indirizzo seguito con competenza dai figli Antonio e Salvatore e adesso, per nostra fortuna, dai nipoti, l’ultima giovane generazione piena di energia che qui, come in altre storiche aziende calabresi, sta disegnando il nuovo volto della doc che registra un entusiasmo davvero incredibile ovunque, come se adesso si stesse tirando fuori dal garage una Ferrari rimasta ferma per un bel po’ di tempo. Sono rimasto davvero colpito dalle novità viste in giro e cercherò di rendervene conto nei prossimi giorni qui e sul Mattino, ma vi assicuro che oggi la Calabria, questa parte della Calabria, ha una voglia di esprimersi come pochi territori mostrano di voler fare nelle altre regioni dove registriamo primi episodi di stanchezza e di ripiegamento culturale.
Per la cantina Ippolito la prematura scomparsa in coincidenza con la rivoluzione vitivinicola italiana di Antonio è stata una brutta perdita, adesso però ci sono i figli Enzo e Gianluca che con il cugino Enzo e suo padre Salvatore, tengono dritta la barra operando il restyling alle etichette e completando il rinnovamento dei vecchi capannoni nel cuore di Cirò Marina dove, vi assicuro, è davvero emozionante girare fra gli antichi macchinari e le tipiche vasche di cemento dove è nato tanto di quel Barolo che è difficile da immaginare adesso. Viene da sorridere, si commentava, quando qualcuno parlando di questi vecchi Gaglioppo o anche Aglianico usa come descrittore ambientale il termine baroleggiante, sarebbe più esatto dire, almeno scientificamente parlando, che è il Barolo di quegli anni ad essere gaglioppeggiante! Ma si sa, per il vino rosso è andata un po’ come il tartufo, raccolto in Molise e divenuto tartufo bianco di Alba perché è sempre il commercio che fa il prodotto. Ed è qui, nella moderna sala degustazione aziendale, che siamo andati avanti con i nostri tre giovani amici e poi nel finale con Salvatore in una interminabile e trionfale cavalcata nel tempo: 1993, 1992, 1991, 1989, 1988, 1987, 1986, 1985 e 1971, la fine della corsa.
Il Ripe, si chiama così dal 1986, nasce nelle due colline del Mancuso, dove prende vita anche la Riserva Colli del Mancuso con la quale abbiamo anche ambato con i millesimi, tanto per gradire, 2000 e 1997: dal cocuzzolo di questi vigneti, alcuni impianti sono in via di rifacimento, è possibile godere la vista spettacolare di Punta Alice da cui inizia il Golfo di Taranto, oppure, volgendosi a Ovest, sul tratto chiuso da Isola capo Rizzuto. Ci si arriva guidando per dieci minuti fra bellissimi olivi secolari, millenari, sorvegliati da Cirò imbruttita, come tutti i paesi della costa calabrese, dalle costruzioni anni ’60 e ’70, quando l’umanità italiana sembrò aver smarrito per sempre il senso estetico che pure ha caratterizzato la sua storia sin dai primi insediamenti. Il cemento era uno schiaffo alla miseria e alla fame, sembrava di essere padroni della natura per la prima volta e non si pensava troppo a devastare il territorio, come fosse una risorsa infinita. Il Ripe, Antonio e Salvatore nemmeno potevano immaginarlo, è divenuto uno dei pochi vino evento in Italia, pensare che costa appena 12 euro franco cantina: ancora una volta si dimostra che avere un archivio storico o, come in questo caso, lanciare delle riserve con almeno dieci, quindici anni di invecchiamento fa sicuramente bene al vino, al produttore e al consumatore perché già poter bere un bicchiere del 1993 regala un fascino incredibile, che va ben oltre le qualità stesse di quello che c’è lì dentro. Non a caso questo è possibile farlo al Sud solo in aziende tradizionali come Mastroberardino in Campania e Ippolito in Calabria, poi si può o meno condividere lo stile, ma questo è tutto un altro discorso e rientra nelle preferenze personali di ciascuno di noi oltre che dalle mode del momento. Resta il fatto che il Cirò è uno dei pochi terroir del Sud in cui è possibile risalire ad un marker preciso, cioé questo.
Da qui poi possono partire le diverse sfumature e dunque la possibilità di valutare un vino anche in rapporto, una volta tanto davvero è così, al territorio che lo esprime. Ciò è possibile perché qui l’enologia non solo è partita con i Sibariti, sarebbe qui il vino più famoso dell’antichità con cui venivano premiati i campioni dei giochi olimpici, giochi oggi sponsorizzati dalla Coca Cola come segno dei tempi, ma soprattutto perché già da almeno cento anni il rapporto fra l’uomo e il territorio, il vitigno e i suoli sabbiosi, limosi e talvolta argillosi di queste terre emerse tardi, hanno raggiunto un equilibrio da manuale, ben definito, classico, messo in discussione purtroppo solo dalle mode dell’era post-metanolo dove altri territori, non avendo questa tradizione e questi marker, hanno imposto criteri spesso un po’ strambi, uno fra tutti, quello del colore cupo e impenetrabile di cui io non capisco la necessità e che mi riporta all’epoca in cui, poniamo, uomini e donne si mettevano le parrucche come capo di abbigliamento. Zone come il Cirò, si parva res licet componere magna, hanno subìto in Italia una pressione simile a quella sofferta dalla Francia con l’enologia truciolosa del Nuovo Mondo. Il Ripe dunque è importante per questo, perché segna, testimonia palpabilmente un modello indiscutibile, è qui, davanti a me, sto con chi lo ha fatto e pensato il suo packaging, non si scappa. E mentre per il Magliocco si può dissertare quale sia la giusta interpretazione, bevibile o da invecchiamento, fruttato o speziato, qui c’è poco da discutere e parlare, il Gaglioppo è questo, prendere o lasciare. Ma è questo non perché qualche contadino in qualche vigna sperduta lo fa così, è tale perché molte e molte aziende lo hanno interpretato e lo interpretano in questo modo da molti e molti decenni e lo hanno così affermato commercialmente nel mondo fuori dal suo territorio. Questo è il passaggio fondamentale e indispensabile che sfugge alla critica enologica neo-pauperistica, per lo meno alle sue caricature, quella, per capirci, appassionata alla fatica fisica dei viticoltori e dimentica delle conseguenze delle fatture non pagate. Del resto, qualcuno avrebbe potuto spiegare ai talebani che i Buddha giganti erano patrimonio dell’umanità e non simboli di una forza nemica e non andavano distrutti come del resto hanno fatto i cristiani copti con la maggior parte delle sculture dell’Antico Egitto? L’uomo ha spesso nel suo serbo una energia irrazionale che vuole distruggere, l’inconscio dei popoli pastori contro i popoli agricoltori che sopravvive intatto sino ad oggi, la confusione contro l’armonia, il pregiudizio contro la razionalità.
E’ questa la lotta fra il Bene e il Male in una comunità. Orsù, mi piacciono poco i resoconti in cui una annata si sussegue all’altra: profitterò delle emozioni che ciascuna mi ha regalato per parlarvene diffusamente. Partiamo dal 1986 perchè è il primo anno in cui il Rosso Classico superiore riserva si chiama Ripe del Falco, viene fermentato in vasca di cemento quando la temperatura ancora non era controllata, siamo, lo ricordiamo, prima della tragedia del metanolo: al naso esprime una stanchezza ossidata smentita dalla bocca, stanchezza, lo dico subito, che invece non abbiamo trovato in nessuno degli anni successivi. Dietro questo tappeto espressione del tempo e non di un cedimento improvviso e repentino, come le persone brizzolate e non come quelli che hanno i capelli bianchi a vent’anni per capirci, si esprimono note profonde di frutta rossa sotto spirito, ancora tabacco. In bocca il Gaglioppo rileva, come mi ha ricordato Vito Puglia che aveva suo nonno al lavoro da queste parti, la sua incredibile acidità, una freschezza infinita, impossibile da smantellare se non bevendola, ed è stata proprio questa, oltre al colore, una delle caratteristiche che lo hanno reso poco moderno agli occhi dei più nella seconda metà degli anni ’90. Ma sono questi due temi, a mio giudizio, che ne fanno invece un vino affascinante e attuale. In bocca l’ingresso è morbido, ma, ripeto, la beva è sostenuta da uno scheletro potente, c’è tra l’altro perfetta corrispondenza fra naso e palato quanto a intensità e persistenza, il finale è lungo, emozionante, asciutto. Il naso gira man mano che passa il tempo, segno questo che distingue sempre un gran vino da un vino corretto. Un vino da conversazione, certo, ma da abbinare anche ad alcuni piatti strutturati ma non esuberanti, ad esempio, chi si ricorda della cara, antica, carne alla pizzaiola che prima si faceva in tutte le case di cui si sono perse le tracce?
Sede a Cirò Marina, via Tirone, 118. Tel. 0962.31106, fax 0962.31107. www.ippolito1845.it; Enologo: Franco Bernabei. Ettari: 100. Bottiglie prodotte: 1000.000. Vitigni: gaglioppo, cabernet sauvignon e greco bianco.
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