di Fabrizio Scarpato
Io avevo un Rivarossi. Il trenino di fronte a me, laggiù, incastrato tra due gallerie, un po’ gli somiglia. Anche la stazioncina, se è per questo, e pure il semaforino. Un fischio: passa velocemente una striscia continua bianca, un attimo di bagliori rossi e azzurri inghiottiti nella galleria. Apparizioni.
Per fortuna ho solo giocato alla guerra, e una batteria antiaerea mi ricorda sudate battaglie con le cerbottane, i nascondigli, i cunicoli. Oggi la piazzola sembra la tolda di una nave, gli ombrelloni le vele, la santa barbara è una cantina rutilante di bottiglie ordinate: munizioni per l’anima. Non ci sono cannoni, non c’è nessuno all’orizzonte, solo cielo e mare.
Sotto la nave il mare roccioso è stupendo, di tutti i colori del verde e del blu, chiazzato del nero delle alghe e dei muscoli di scoglio.
Maschera e pinne, respiro affannoso, sputazzi dal boccaglio e giù a far conchiglie, a sradicare cozze e fiocinare i polpi, le seppie. C’era un ragazzo. Sul ponte fumano le frittelle di baccalà, tra insalate di polpo e acciughe sott’olio, innamorate del loro burro. Liguria fino al midollo, che rispetta il mare e ama la terra, che dal mare prende quel che può conservare, quello che avanza, che sul mare punta i piedi per tirarsi su nella campagna, a lavorare le piane e gli orti. Focaccia e torte di verdura, acciughe fritte e in scabecio, profumi del timo e del rosmarino dei campi di Lemmen, di roba camallata in bilico sulla testa, dalle donne, giù per le vecchie creuze, fino ai piedi del mare.
Prezzemolo e limone, vita agra, vita ruvida a pane e salame, e un gotto di vino.
A pié de mà, si chiama la nave, e il risciacquo della risacca non è l’onda, ma il vino: Cinque Terre che di tutto il mare, di tutto il sale e di tutta la macchia di fiori gialli e bianchi raccoglie il profumo, screziandolo della pietra arsa dal sole. La roccia è lì, appoggi la mano, aperta, in un gesto primitivo. Quando mangiavo i muscoli e la zuppa di datteri sui legni delle trattorie piantate nell’acqua, mi mettevano un tovagliolo annodato al collo: Dio ti salvi la vista ma non l’appetito. Quattro palmenti, e sale e mare, le scottature e il sole, rosso, come questo tramonto, laggiù dove non c’è nessuno, sulla riga tra ceruleo e celeste, alla fine della terra. Cinque Terre da camminare, da sorvolare, da navigare, di una bellezza violenta se viste dai monti o dal mare: il loro panorama è invece una riga d’infinito, il sipario del dottor Parnassus, il telone del Truman Show, tra immaginazione e realtà.
Ai piedi del mare giochi bambino, ai piedi del mare ti innamori, ai piedi del mare ti lasci fantasticare: sei Di Caprio sulla prua, sei Achab in caccia di Moby Dick, guardi avanti, con la terra alle spalle. Melanconia della scelta, possibilità intraviste che bruciano d’ansia in un fuoco gucciniano: ma non è nostalgia, tantomeno rimorso. Il mare si muove e la Via dell’Amore comincia proprio qui. Eros e Thanatos. Per la via di qua, va la nave di bolina, tra lo sciabordìo del vino, fino all’orizzonte. Ma il sipario non ti inghiotte, non si lacera il fondale di cartapesta: la realtà non irrompe e continui a pettinarti i pensieri, col bicchiere nella mano.
Immobile, nel blu dipinto di blu.
Pescatemi, fiocinatemi, marinatemi, insalatemi, friggetemi, bruschettatemi, tenetemi qui sott’olio, sotto sale, in scabecio sotto il sole, sbocconcellatemi tra i profumi del pesto e la dolcezza amara dei panettoni genovesi.
Illiguriatemi, e lasciatemi qui. Ai piedi del mare.
Riomaggiore, stazione di Riomaggiore: dal binario due, treno in partenza per La Spezia. Non fa fermate, non c’è tempo. Ma il treno dei desideri, nei miei pensieri all’incontrario va.
A pié de mà – Bar & Vini – Riomaggiore, Cinque Terre (SP) ( www.apiedema.com)
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