Il riso nella tradizione del Sud: arancine, sartù, tiella barese e tanto altro

Pubblicato in: Curiosità

Arancine siciliane, foto di Teresa De Masi

di Santa Di Salvo

Molti napoletani lo chiamano anche oggi “sciacquapanza” ed è  un insulto. Non si può malmenare così l’alimento più diffuso al mondo, con una storia millenaria di grande nobiltà! Ma noi sfrontati trattiamo male anche i re, quindi continuiamo a  considerare il riso un cibo per malati e convalescenti. O comunque un cereale di serie b. In verità, un motivo storico c’è. Come riportato dalla famosa “Indagine sull’alimentazione del popolo minuto di Napoli” (1863) il senatore De Renzi individuò due ragioni dello scarso consumo, che poi sono una sola. Il primo è il costo più elevato di quello della pasta. Il secondo è che il riso ha sempre bisogno di condimento e quindi di un’altra spesa aggiuntiva. A suo avviso, le paste cotte hanno più sapore, il riso da solo è “ristucchevole” (ancora!). Nella seconda metà dell’Ottocento l’unico vero piatto della cucina popolare era il riso e verza, preparazione già segnalata da Vincenzo Corrado che ancora oggi ritroviamo sulle tavole di casa e nelle trattorie di quartiere.

La storia del riso al Sud è storia di un rapporto difficile eppure importante, come quei matrimoni in cui si litiga ma ci si vuol bene. Perché nella cucina meridionale il riso, pur in assenza di forti connotazioni di costume (significativa la sua assenza totale nei proverbi), ha un suo ruolo significativo. Arancine e arancini in Sicilia, riso patate e cozze in Puglia, sartù di riso e risotto ai frutti di mare in Campania, supplì nel Lazio. C’è una bella presenza di riso nella cucina del Sud. E non a caso. Molti non lo sanno, ma il riso è di casa tra le nostre coltivazioni. Durante l’occupazione araba, IX secolo, il riso fa la sua prima comparsa proprio in Sicilia, a Siracusa e nella piana di Lentini, vicino Catania. E poi sale in Calabria, nella vasta piana di Sibari. Sono le prime risaie del Sud, in un paesaggio dominato dagli acquitrini. Sono gli aragonesi a introdurre la coltura appresa dagli Arabi nel regno di Napoli (XV secolo). Dal Sud, e non viceversa, la risicoltura risale lo stivale e si diffonde prima in Toscana poi nella Valle Padana. Siamo alla fine del Quattrocento.

Nonostante la documentazione lacunosa, sembra accertato che la prima coltura in Campania, sotto il regno di Alfonso d’Aragona, sia stata nelle piane acquitrinose del Principato di Salerno. Capitale delle piantagioni di riso per un lungo periodo, l’area di Salerno era nota per l’eccellente qualità del suo prodotto. Ne sono testimoni poeti come lo Sgruttendio, scrittori come Giambattista del Tufo e cuochi celebri come Bartolomeo Scappi, che nelle sue ricette con brodo di pollo consigliava “il riso milanese o di Salerno che sono i migliori”, e Antonio Latini, che nello Scalco alla Moderna alla fine del Seicento ricordava che Salerno “produce li più famosi risi e in gran abbondanza”. Oltre al Principato Citra, che arrivava al Vallo di Diano, altra zona piena di risaie fu Castellammare, ricca di acque e dunque particolarmente vocata alla coltivazione di cavoli, broccoli, torzelle e riso.

Testimonianze tante, da Ruperto da Nola col suo Libre de Coch (1477) a Vincenzo Corrado nel Notiziario delle produzioni particolari del Regno di Napoli (1792). Ma la convinzione che il riso favorisse lo sviluppo della malaria e l’ampiezza delle aree del nord favorirono progressivamente la “migrazione” della coltura. La concorrenza sbaraglia Campania e Sicilia, i cui territori, compreso il feudo dei principi di Moncada, vengono riconvertiti alla coltivazione degli agrumi. Negli anni Trenta l’Ente Nazionale Risi sancisce il divario: quasi 65mila ettari in Piemonte con una produzione di 311mila tonnellate, 24 ettari in Campania, fanalino di coda con 96 tonnellate di prodotto. Solo da qualche anno è rinata in Calabria la vocazione “risicola” di alcune aziende all’avanguardia come Magisa che stanno lavorando nella piana di Sibari alla rinascita di una coltura di eccellenza.

Il riso sparisce al Sud come coltivazione ma conquista a poco a poco la tavola dei signori. Tutto l’Ottocento borbonico vede la rapida risalita dei piatti di riso sulle mense di corte, con ricette compiutamente riferite dal Cavalcanti nei suoi ricettari. Riso nel brodo di pomodoro, denso quasi come un risotto; bignets di riso, ricchi di imbottitura, che assomigliano più al supplì romano che alle nostre “palle di riso” molto più povere. Ma anche in Sicilia, oltre le arancine,  i “badduzzi di risu ‘nto brodo”, antenati del risotto alla milanese. E poi riso patate e cozze di Bari. Infine, last but not least, il vero capolavoro della cucina aristocratica napoletana fatto con il riso: il regale Sartù. Il primo a metterlo per iscritto fu Vincenzo Corrado nel suo Cuoco Galante del 1778. Era ancora il Sortù, denominazione più vicina all’originario Surtout francese. Ed era bianco, imbottito di ragù di animelle, tartufi, prugnoli ed erbe aromatiche. Una vera delizia a cui seguiranno molte altre varianti fino ai giorni nostri. E’ uno dei piatti che ancora oggi i napoletani amano di più. Perché, come dice la canzone che ribadisce il concetto con cui abbiamo aperto, “’o riso scaldato era na zoza / fatt’a sartù è tutta n’ata cosa”.


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