di Francesca Faratro
A mia nonna e alla sua cucina, la quale insieme a mio nonno Franco Dipino, ha saputo condurre una storia d’amore fra cucina e ristorazione.
E’ da qualche mese ormai che, reduci dal gettonatissimo fenomeno della pizza “craccata”, il web è impazzito nel vero senso della parola con frasi, post e hashtag che alludono al famoso chef che nella città meneghina ha lanciato il suo modo di vedere il disco di pasta lievitata.
Fra i tanti post, l’immagine che metteva a confronto due piatti da portata: da una parte, quello di Carlo Cracco, dall’altro un fumante primo, preparato da una fantomatica nonna presa a caso.
Nettamente differenti alla vista, con colori bilanciati in modi opposti ed ingredienti appartenenti ad idiomi e culture diverse, ciò che risalta e ne rispetta l’ironia voluta per tale affronto, sono proprio le dimensioni o meglio ancora, le porzioni.
La prima custodisce cinque (e sottolineo cinque maccheroni), la seconda invece, un’improponibile quantità di pasta.
Filosofie opposte, ruoli completamente diversi ed ideologie che non si incontreranno mai, parlare della cucina delle nonne è un pò come raccontare la storia della nostra vita.
Ricordando quei pani raffermi, lasciati colorarsi dal pomodorino di Corbara ed il giallo oro dell’olio cilentano a completare il quadro.
E’ comfort food o semplicemente la migliore espressione culinaria che ci riporta ai tempi della fanciullezza quando, a piedi nudi e con le fronti sudate, eravamo soliti fermarci per una pausa a suon di bontà e carezze.
Per le nonne di oggi, quelle della nuova era, le quali sanciscono il passaggio dal “vecchio” modo di pensare a quello odierno, non si è mai sazi con una lauta porzione di pasta: bisogna abbondare con il sugo, con i grammi incontrollabili che non conoscono aghi di nessuna bilancia. Bisogna arrendersi a diete e piani nutrizionali perché il parmigiano, per loro alimento ricco e fonte di grandi nutrienti, deve essere sempre in una percentuale che superi il 50% sul totale del piatto.
E si finisce così per ritrovarsi della pasta sormontata da una spolverata di formaggio che fa invidia agli Appennini innevati.
Per non parlare dell’olio che resta sul fondo del piatto, come quasi fosse un cimelio da ricordare a fine pasto a testimonianza di sazietà ed abbondanza.
Ah, quei piatti super calorici, che non conoscono calorie ed ore di palestra ma che sanno di casa e di quelle giornate felici passate spensierate al riparo di cuori che riescono ad amare più dei genitori, senza riserva.
Nell’epoca moderna, fra termini come gourmet, nouvelle cousine, amuse-bouche e chi ne ha più ne metta, bisognerebbe dedicare una sezione culinaria dedicata appunto alle donne che hanno fatto la storia, con un termine come “la cucina della nonna” o qualsiasi altro si voglia ma che contenga le migliori ricette di sempre, tramandate, a mò di sussidiario, di madre in figlia.
Io sono stata una nipote fortunata e con la stessa fortuna, lo sono ancora oggi.
Una come tante che è cresciuta fra le ali di un ristorante, con l’odore inebriante di soffritto, sfusato d’Amalfi, biancheria e tovagliato, candido, senza macchia e con un profumo tutto suo.
Una che è cresciuta a passi di sughi e scarpette.
Mia nonna, assieme all’amore della sua vita, porta tutt’oggi sul viso, le ore estenuanti di un ristorante da condurre, un luogo che l’ha vista piangere e gioire, sudare e raccontarsi, senza mai arrendersi.
Negli anni d’oro, con la sua semplicità, è stata lei a cucinare per volti illustri che dal suo locale son passati.
Jacqueline Kennedy, Salvatore Quasimodo, Andy Wharol, Federico Fellini, Gianni Agnelli.
Tecnica e perseveranza, figli da accudire, orari sempre più lunghi ed il suo grembiule o “parannanza”, senza mai abbandonarla.
Quest’anno ne sono ottanta di primavere e non potevo che ringraziarla per il bene che singolarmente mi ha voluto, per quello che mi ha trasmesso da nonna e da donna e per averlo fatto in egual modo per i suoi clienti, per le persone che hanno riempito i suoi tavoli dell’amatissimo ristorante “La Caravella” di Amalfi.
Mia nonna mi ha insegnato che il calore dei fornelli quando si cucina è lo stesso che muove il cuore, dà emozioni, trasmette incessantemente e senza fermarsi.
Mi ha insegnato che il sugo va fatto cuocere e che per prepararlo bisogna metterci tempo e voglia, abbondando nei condimenti e riempiendolo di carne, scelta e di vario genere, per consentire al pomodoro di insaporirsi.
Mi ha insegnato che cucinare è farlo bene altrimenti devi obbligatoriamente imparare perché ogni donna che si rispetti, per essere una buona mamma e moglie, deve saper portare in tavola, il piatto che prenda tutti per la gola.
Le ricordo quelle giornate, le domeniche mattina dove il profumo mi svegliava e raggiungeva la mia stanza: era inevitabile alzarsi e, a piedi scalzi recarsi in cucina, tagliare il “cuzzetiello” di pane (la terminante parte dei filoni), scavarla con le dita e riempirla di salsa.
Era ed è la colazione dei campioni, di quelli che amano il cibo e sanno emozionarsi davanti allo spettacolo che solo la cucina della nonna sa dare.
La cucina della nonna è completezza, è una tavola imbandita, accompagnata dagli occhi colmi di felicità di un anziano che ripone in suo nipote, l’onore di aver a pranzo un ospite speciale. E’ segreti e trucchi, è amore, fantasia e storia.
La cucina della mia nonna è il sugo, il ragù del quale ne vado ghiotta.
E’ lo stesso con il quale sono cresciuta, quello che mi ha svezzata fra le altre cose e del quale custodirò una pagina scritta che, sicuramente, dopo le svariate preparazioni, spero di imparare a memoria.
Nonna Anna mi ha svelato la ricetta ed io non posso che condividerla con voi, così che la traccia della sua vita, della sua maestria, degli anni spesi a cucinare per uno stellato d’Italia, rimanga impressa nel tempo ed affidata alla storia.
Il sugo di Nonna Anna
In una pentola abbastanza grande, rosolare l’olio con le tracchie, lasciandole soffriggere ed imbiondirsi. Unire poi la cipolla tagliata finemente ed il resto della carne: salsicce, involtini ripieni, pezzi di carne. Quando la carne inizia a cuocersi, unire il pomodoro passato, salare il tutto ed iniziare a cuocere a fiamma viva. Non appena il sugo inizierà a bollire, togliere la salsiccia (che aggiungeremo a metà cottura) ed abbassare la fiamma al minimo. Lasciare cuocere il sugo per 2/3 ore, secondo la quantità preparata, fino a quando il pomodoro non risulterà denso e cremoso.
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