di Carmelo Corona
Volgarmente nota come “sarda”, il suo nome scientifico è Sardina Pilchardus ed è sicuramente la varietà di pesce che più si identifica con l'Isola del Sole. Da sempre molto economico e disponibile in abbondanza, la sardina è stata per molto tempo (e lo è tuttora!) il pesce che le famiglie siciliane meno facoltose consumavano abitualmente. Pesce povero per convinzione (e convenzione!) la sardina di Selinunte viene pescata da aprile ad ottobre nel tratto di mare compreso tra Capo Granitola (territorio di Campobello di Mazara) e Capo S. Marco (comune di Sciacca), suggestiva fascia costiera compresa tra le province di Trapani e Agrigento, nel Golfo di Selinunte.
Il pesce azzurro e la sardina in particolare sono una peculiarità della pesca artigianale della marineria di questo tratto di costa della Sicilia occidentale. La pesca avviene con una tecnica antica che ancora poche marinerie adottano.
I pescatori sono soliti calare in mare all'imbrunire le reti di posta dette “tratte”, un tempo di cotone, oggi realizzate in nylon. La grandezza delle maglie è tale da sbarrare la corsa solo alle sardine di peso maggiore. Le barche fanno rientro in porto nelle prime ore del mattino con il pescato fresco, posto in cassette da circa 7/8 kg. Diffusa in tutto il Mediterraneo, la sardina vive principalmente in acque poco profonde e si nutre soprattutto di plancton.
La colorazione del dorso è azzurro-verdastra e raggiunge mediamente una lunghezza di circa 15 cm. E' un piccolo migratore, nel periodo della riproduzione forma dei grandi banchi in prossimità delle coste, mentre durante il periodo invernale si allontana verso il largo, prediligendo acque più profonde.
Al vantaggio di un costo modesto (2-6 euro/kg) questo Clupeide unisce il pregio di una carne molto saporita e piuttosto grassa, ricca di acidi grassi insaturi Omega 3, con un elevato livello di lipoproteine ad alta densità (HDL), il cosiddetto “colesterolo buono”. Le sue carni sono più grasse (e dunque più apprezzate) nel periodo caldo, più magre nei mesi freddi.
Una tradizione molto seguita in tutta la costa è quella di cucinarle alla brace, staccando semplicemente la testa, e di irrorarle a fine cottura con una abbondante spruzzata di “sammurigghiu”, antica emulsione di olio e limone (ma anche aceto oppure vino bianco di grande freschezza) a cui viene aggiunto pesto d'aglio, un trito di prezzemolo, origano ed una spolverata di pepe, oppure di “ammogghiu”, a base di pomodori maturi essiccati in forno, pesto d'aglio, olio extra vergine di oliva, peperoncino rosso, prezzemolo, basilico.
C'è chi aggiunge anche il sale ma la spiccata e complessa aromaticità delle preparazioni rende superflua la sua aggiunta, rendendo il piatto finale decisamente più equilibrato e salutare. Come alcuni anziani pescatori amano ripetere: “La morti di la sarda è'ncapu lu focu…”.
Sicuramente una delle protagoniste in assoluto nella gastronomia isolana, la sarda si presta alla preparazione di un repertorio di piatti superbi e tutti degni di nota: da sfiziosi antipasti come le sarde a linguata ed il carpaccio di sardine, a primi piatti mitici come la pasta con le sarde, fino ai secondi ormai leggendari come le sarde a chiappa ed a beccafico (oggi però consumato nei ristoranti soprattutto come antipasto).
Il periodo storico che intercorre tra la fine della dominazione spagnola (1713) e la promulgazione della prima costituzione (1848) è quello in cui si consolida la elaborata cucina baronale presso le corti dei numerosi “gattopardi” che si contendono i più rinomati monsu'. Con questa deformazione dialettale siculo-napoletana della parola francese “monsieur”, erano chiamati nei secoli XVIII e XIX gli chef di cucina dei casati aristocratici di Campania e Sicilia. Siamo in un'epoca di piena influenza gastronomica francese ed il titolo francesizzante esaltava, in qualche modo, la bravura di questi eccelsi operatori di cucina, anche se essi, di solito, francesi non erano (è proprio alla fine del 1800 che il grande chef francese Auguste Escoffier codifica la famosa scuola classica). L'elaborata ed opulenta cucina baronale era naturalmente divulgata presso il popolo dai domestici e da coloro che lavoravano al servizio dei nobili e dei prelati. In particolare, la cacciagione era particolarmente apprezzata dai signori del tempo ed uno dei piatti che comparivano spesso sulle tavole erano i beccafichi, minuscoli volatili così chiamati perché ghiotti di fichi maturi, dalla carne particolarmente pregiata ed apprezzata, che i nobili buongustai erano soliti sbocconcellare a piacimento. Durante la mia ricerca su vari testi di cucina siciliana mi sono imbattuto in ben 4 versioni di sarde a beccafico: alla palermitana, alla catanese, alla ennese ed alla messinese. C'è da dire subito che una menzione a parte meritano senz'altro quelle alla palermitana che, rigorosamente “in bianco”, aperte a linguata (cioè, a libro), dopo aver tolto testa e lisca, vengono lavorate in modo da formare degli involtini che, per tradizione vengono poste in padella con la codina rivolta all'insù, assumendo così tutto l'aspetto dei beccafichi così come un volta erano serviti sulle tavole degli aristocratici (da qui il nome). E' anche l'unica versione in cui le sarde vengono lavorate e farcite singolarmente, mentre nelle altre vengono sovrapposte l'una all'altra con la farcia in mezzo. Prima di passarle nel forno è uso irrorarle di succo di limone, pangrattato ed un pizzico di zucchero.
La versione alla catanese prevede la normale farcia (a base di pangrattato, pecorino grattugiato, aglio e prezzemolo, uova) tra le due sarde aperte che vengono poi semplicemente infarinate e fritte. Nelle sarde a beccafico alla ennese tra le due sarde aperte a linguata oltre alla farcia si aggiunge un pezzetto di acciuga dissalata e diliscata ed una striscia di formaggio primo sale. Vengono poi passate solo nell'uovo sbattuto e fritte. Qui dirò della ricetta con cui sono cresciuto, che ho visto cucinare da mia madre (messinese di origine), dalle mie nonne e (una volta sposato) da mia suocera. Pur vivendo nel trapanese, territorio geograficamente molto vicino a quello panormita, la versione che ho sempre visto sulle tavole a me familiari è quella in salsa di pomodoro. Per questa versione esistono poi delle varianti che sostanzialmente differiscono per gli ingredienti della farcia. Se confrontiamo, ad esempio, le ricette del Correnti con quelle della Allotta notiamo che le farce vengono preparate con gli stessi ingredienti già visti con una sola, sostanziale differenza: la versione della Allotta prevede l'aggiunta di capperi nel trito aromatico.
La ricetta che qui riporto è denominata sardi a beccaficu cà sarsa (letteralmente'con la salsa', di pomodoro, ovviamente) oppure cù sucu (letteralmente,'con il sugo'). In tricolore: Sarde a beccafico alla messinese. Questa versione di tipo “familiare” comprende inoltre nella farcia anche pinoli e uvetta, normalmente presenti solo nella ricetta palermitana, non contempla la macerazione iniziale delle sarde aperte nell'aceto forte (tendenza ormai consolidata nelle ricette rivisitate, anche per agevolare l'abbinamento con il vino) e le sarde, una volta riempite, non vengono né infarinate né passate nell'uovo ma direttamente sbattute in padella a rosolare.
Le sarde a beccafico, a prescindere dalla ricetta e/o versione, è sempre preferibile, per assaporarle al meglio, servirle ben riposate (provate a gustarle il giorno dopo la cottura…). Un altro motivo per cui preferisco questa versione è il fatto che consente, con il sugo rimasto, di condire un bel piatto di appetitosi spaghetti (roba da perdere la testa…!). Per quel che concerne l'abbinamento, croce e delizia di ogni sommelier, c'è da dire che questo è certamente un piatto caratterizzato da una bella complessità: la tendenza dolce, la grassezza e l'aromaticità del pesce, la tendenza acida del pomodoro, l'aromaticità dell'aglio, del prezzemolo e del pecorino, la speziatura (pepe, peperoncino), la tendenza dolce di alcuni ingredienti come l'uvetta ed i pinoli, la succulenza e la persistenza gusto-olfattiva.
La presenza del pomodoro nella ricetta mi fa propendere, istintivamente, per un abbinamento di tipo “cromatico”, con un rosso di media struttura, di buon equilibrio e buona persistenza gustativa. Penso ad un blend di nero d'Avola e merlot oppure ad un Cerasuolo di Vittoria di medio corpo ma anche ad un Etna rosso non troppo giovane (per non cozzare troppo con la tendenza acida del pomodoro). Per il resto, che dire… Ogni volta che ho modo di apprezzare piatti come questo, definiti “poveri” o “popolari”, sorrido pensando a quel che si sono persi i nostri cari “gattopardi”…
Sarde a beccafico
Di Carmelo Corona
Tempo di preparazione: 15 minuti
Tempo di cottura: 30 minuti
Ingredienti per 4 persone
- 1 kg di sarde
- 150 g di pangrattato
- 50 g di pecorino grattugiato
- 1 cucchiaio di capperi
- 5 dl di salsa di pomodoro
- 2 spicchi d’aglio
- un mazzetto di prezzemolo
- 3 uova
- olio extra vergine di oliva
- sale e pepe
Preparazione
Aprite le sarde a libro, dopo aver eliminato testa, lisca e coda; lavatele con cura e cospargetele con un po’ di sale.
Amalgamate il pangrattato con il pecorino, aggiungete un trito di aglio, capperi e prezzemolo, una presa di sale ed una spolverata di pepe.
Completate con un uovo battuto e lavorate il composto fino a renderlo omogeneo. Distribuitelo poi sulla parte interna di metà delle sarde.
Coprite con i pesci rimasti e praticate una leggera pressione in modo da far aderire bene le sarde alla farcia.
Friggetele in abbondante olio caldo.
Una volta dorate, sgocciolatele e proseguite la cottura nel sugo di pomodoro per 10-15 minuti.
Lasciate riposare
Superlative calde o fredde (de gustibus….).