di Carmen Autuori
La tavola di Capodanno, ancor più di quella del Natale, si vuole sontuosa; ricca di cibi ben auguranti che siano di buon auspicio per l’anno che verrà. Via libera quindi a paste ripiene, arrosti farciti, dolci opulenti e frutta secca da sempre simbolo di prosperità. La tradizione vuole, infatti, che si consumino sette tipi di frutta secca (noci, nocciole, arachidi, mandorle, fichi, uvetta e datteri) perché il numero sette esprime la globalità, l’universalità, l’equilibrio perfetto.
E’, dunque, una tavola che deve stupire. E a tal proposito non si può non pensare ad uno dei piatti che è retaggio della grande cucina aristocratica meridionale, il Timballo (o Timpano) in crosta, simbolo della cucina verticale che è stata una vera e propria rivoluzione nella storia della nostra cultura gastronomica.
Magnifica la descrizione che ne fa Tomasi di Lampedusa ne “Il Gattopardo”nella celeberrima scena del pranzo che precede il ballo nei sontuosi saloni di Palazzo di Donnafugata: <<L’oro brunito dell’ involucro, la fragranza di zucchero e cannella che ne emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’ interno quando il coltello squarciava la crosta>>, è il Timballo in crosta di Monzù Gaston. Dalla sua penna viene fuori, così, tutta la carica simbolica del piatto: è storia da gustare e da annusare, rappresenta la ricchezza della decadente nobiltà, non solo siciliana, ma di tutto il meridione, di quelli che furono i gattopardi, i leoni.
Come dicevamo, il Timballo è il piatto simbolo delle tavole aristocratiche protagoniste della rutilante Napoli settecentesca, capitale del Regno delle Due Sicilie, che ha visto all’opera dei veri e propri geni della cucina, i monzù.
Tra i più noti sicuramente Vincenzo Corrado, capo dei servizi di bocca del principe di Francavilla a Palazzo Cellammare e Don Ippolito Cavalcanti Duca di Buonvicino. Ma accanto ad essi troviamo anche una nutrita schiera di cuochi, formati dai cugini d’Oltralpe venuti al seguito di Maria Carolina d’Austria, che si distinguevano dai cuochi di “paglietta” (quelli considerati di serie B per intenderci) e a cui l’aristocrazia napoletana riservava grande considerazione tanto che avere un monzù celebre era per una casata aristocratica motivo di vanto e di orgoglio. In alcuni casi si arrivava perfino a duellare per accaparrarsi i servigi di questi cuochi che erano delle vere e proprie celebrità, tanto che il titolo prestigioso veniva tramandato di padre in figlio. Erano quasi sempre conosciuti con nomignoli oppure con il nome di battesimo seguito dal cognome della famiglia aristocratica presso cui avevano lavorato più a lungo.
Così, Nicola Macera era Nicola ‘e Trecase, Vincenzo Attolini era Vincenzo ‘e Campagna, Salvatore Ruggiano Cunfettiello ‘e Barracco, Vincenzo Marino Terremoto, per citarne alcuni.
Il grande fascino da loro esercitato sulla nobiltà napoletana non passò inosservato al popolo che, con la consueta fantasia, li dissacrò con questo motto:
Monzù monzù
È gghiuta ‘a zoccola ‘int o rraù.
‘A Signora nunn’ ‘o vo cchiù,
magnatillo tutto tu!
Tornando al nostro timballo c’è da dire che esso era già conosciuto molto prima dell’avvento dei cuochi di corte, è figlio della cucina tardo medievale. Nasce, infatti, nel XIV secolo, quale guscio di pasta detta “mezza frolla”, molto spesso agrodolce, ripieno di paste e sughi molto ricchi e prende il nome dallo stampo in cui viene cotto, una sorta di contenitore cilindrico con diametro uguale all’ altezza.
Rimane in auge nel corso dei secoli quale piatto delle occasioni importanti, sebbene acquisti caratteristiche peculiari a seconda della zona di diffusione.
In Campania, ad esempio, oltre alla caratteristica versione “in crosta”, alcune volte è la pasta stessa che assume la funzione di involucro: è il caso del partenopeo Cerino o Timballo flammand, uno dei più raffinati piatti (e anche dei più difficili) della cucina aristocratica campana come riportato da Franco Santasilia di Torpino nel suo “La cucina aristocratica napoletana”.
E’ una cupola di pasta, in genere bucatini, che si presenta a tavola con una fiamma al centro ottenuta dalla combustione di una piccola quantità di alcol contenuta in un guscio d’ uovo.
Il nostro Timballo in crosta è una rivisitazione, semplificata, di quello tratto da “Il Cuoco Galante ” di Vincenzo Corrado. Sicuramente di non semplicissima esecuzione, ma usando ingredienti di prima qualità, a cominciare dalla pasta, e dedicando ad esso il tempo e la passione che sempre richiedono i grandi piatti, porterete sulla tavola di Capodanno un vero e proprio capolavoro.
Ingredienti per 10 persone
Per la pasta mezza frolla
500 gr di farina 00
190 gr di burro freddissimo
2 tuorli
10 gr di sale
Acqua molto fredda
Per il ripieno
500 gr di paccheri rigati
650 gr di carne mista vitello e maiale
300 gr di fegatini di pollo
1l di passata di pomodoro
1 cipolla
1 gambo di sedano
1 carota
80 ml di vino bianco
80 g di parmigiano
3 tuorli d’ uovo (1 vi servirà per spennellare la superficie)
Funghi secchi a piacere
Panna fresca
Olio evo
Burro
Noce moscata
Sale
Preparazione
In una capace terrina mescolare farina e burro freddo, aggiungere il sale i 2 tuorli e, all’ occorrenza, qualche cucchiaiata di acqua freddissima. Impastare brevemente e riporre in frigo avvolto da pellicola trasparente.
Soffriggere le verdure tritate in abbondante olio evo. Aggiungervi la carne e i fegatini. Una volta rosolato il tutto, sfumare con il vino bianco. Versare nella pentola la passata di pomodoro, salare e lasciar cuocere per circa 2 ore a fiamma dolcissima.
A parte soffriggere i funghi secchi, precedentemente ammollati e tritati sottili, con una noce di burro. Tenere da parte.
Lessare i paccheri rigati molto al dente, scolarli e farli asciugare su un canovaccio pulito.
Frullare con il mixer la carne, scolata dal sugo, con 2 tuorli d’ uovo e metà parmigiano. Ammorbidire con qualche cucchiaiata di panna fresca e con questo composto, aiutandosi con una sac a poche, farcire i maccheroni.
Stendere la pasta mezza frolla in due dischi, foderare con uno dei due uno stampo da timballo, precedentemente imburrato ed infarinato. Riempire con uno strato di paccheri ripieni, irrorare col sugo della carne, aggiungervi parte dei funghi, spolverizzare con il parmigiano restante e un pizzico di noce moscata. Continuare fino ad esaurimento degli ingredienti. Coprire il tutto con l’altro disco,sigillare molto bene i bordi, bucherellare la superficie e spennellare con il restante tuorlo d’uovo.
Infornare a 200° per circa 40 minuti (fino a doratura). Lasciar intiepidire per una decina di minuti prima di sformare sul piatto da portata.