di Giulia Gavagnin
Riccardo Cotarella è un enologo, ma potrebbe essere un umanista rinascimentale. Non si vergogna di affermare la centralità dell’uomo nel mondo, la sua è una visione antropocentrica, di una testa pensante che si sente in dovere di cambiare il corso delle cose e della natura, non di subirla.
Per questa ragione è inviso al mondo del “nuovo vino” che, poi, tanto nuovo non è. Pratiche enologiche ridotte all’osso, utilizzo dei soli lieviti indigeni, fermentazioni spontanee, sono il corredo viticolo dei nostri avi. Nessuno critica il “ritorno alla natura” professato dagli alfieri dei c.d. vini “naturali” se il prodotto finale è di valore. Colpisce, invece, l’astio che molti di questi esponenti riservano al più noto enologo italiano, che manipola la natura anziché assecondarla. Cotarella ha tenuto una vera e propria lectio magistralis all’AIS di Milano davanti a una platea di cento persone. Ha presentato nove vini di suo conio provenienti da varie parti del mondo, senza risparmiare affermazioni provocatorie.
“Il vino è terra, cielo, uomo. Non me ne vogliano i birrai, ma la birra non ha la stessa profondità con la birra non si può fare una verticale”. Il mio vicino, un giovane con l’orecchino e la camicia a quadrettoni che sembrava uscito da un video dei Pearl Jam sbuffa. Questo è solo l’inizio. L’enologo umbro presenta “Star of Betlehem” dell’azienda Cremisan, un blend di varie uve israeliane prodotto in territorio palestinese, al confine con Israele. Racconta dell’impatto profondo che quella terra ha lasciato nella sua vita, perché per raggiungere l’azienda bisogna attraversare muri, mitra spianati, filo spinato. Oltre la cortina ci sono israeliani e palestinesi che lavorano con si faceva cent’anni fa, con asini e muli, senza le macchine. Il vino presenta una media speziatura, reca tracce di un frutto nero molto vivo: mirtillo, ribes nero acidulo, note balsamiche di pino e ginepro, una leggerissima scia animale.
“Questa azienda è dei Padri Salesiani, un tempo produceva molte centinaia di migliaia di bottiglie, oggi per le tensioni politiche ne produce solo 150.000. Questa azienda è il simbolo della pace, perché vi convivono arabi, israeliani, palestinesi. Nonostante la guerra, nonostante il progressivo inaridimento delle terre questa è una realtà importante. Sapete perché? Perché non esistono terreni vocati, esiste l’uomo, con il suo lavoro, a rendere vocati i terreni!”.
Qui ad alcuni sono tremate le vene ai polsi perché ormai si parla solo di terroir, di rispetto per il vitigno, di intervenire il meno possibile in vigneto. Cotarella ribadisce il concetto quando presenta l’Heritage di Chateau St. Michelle, un blend di merlot, syrah, cabernet sauvignon e petit verdot prodotto nella Columbia Valley, una zona desertica nel piovoso stato di Washington, quello della capitale Seattle nota per l’alto tasso di suicidi dovuti (forse) al clima inclemente. E’ il classico taglio bordolese americano, opulento, con forti note di tabacco e vaniglia, un frutto rosso maestoso che non degrada mai a marmellata, e tanto sentore di caffè, nocciola e tostatura. “In questa terra inospitale non si dovrebbe fare vino”, dice Cotarella. “al di là delle montagne piove in continuazione, qui c’è il deserto, l’irrigazione è continua. La verità è che l’uomo può fare vino ovunque lo voglia, se ne è capace. Io ho fatto il vino in Giappone, a Sapporo, dove d’inverno ci sono meno 25 gradi. Perché parliamo ancora di territorio vocato?”. Cotarella sfida le convenzioni, è ovvio.
Ha sempre voluto arrivare laddove gli altri non arrivavano. Tutti pensano che il pinot nero si esprima bene solo in Borgogna e in Alto Adige, lui ha seguito l’azienda dello svizzero Bruno Bosco che in pieno Chianti ha piantato pinot nero ricavandone un vino dai tipici sentori di lampone, rosolaccio, lavanda, una speziatura di cipresso, pepe bianco e cannella e in bocca un’alcolicità tipica dei vini toscani. “E’la prova che il lavoro viene prima del vitigno e del territorio”, dice, fino al punto di ipotizzare che il terroir di Bolgheri diventerà autoctono perchè “il cabernet sauvignon e il cabernet franc vengono portati dall’uomo nel territorio”. Della zona presenta un taglio bordolese delle tre uve, l’”Opera Omnia” de La Madonnina, un’azienda di sette ettari acquistata da un imprenditore russo. Un classico bolgherese dai sentori di arancia rossa, amarena, ginepro. Infine, racconta una bella storia di casa nostra. “Tempo fa ho conosciuto una fotografa, che voleva fare a tutti i costi il vino. Le ho chiesto dove volesse farlo e lei mi ha risposto: nell’entroterra salernitano, vicino a Pontecagnano. Io mi sono assai depresso perché ero fermamente convinto che là non si potesse fare il vino. Le ho risposto di si solo perché era una donna, ma in breve tempo siamo riusciti a creare uno dei più grandi vini italiani dove pensavo non fosse possibile. Lei è Silvia Imparato e il vino è il Montevetrano. Da allora ho capito che l’uomo è tutto”.
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