di Fabrizio Scarpato
L’uomo era arrivato in quella cantina ormai stanco. Era tanto tempo che cercava una risposta al suo semplice quesito, ma nessuna tra le innumerevoli risposte lo aveva mai completamente convinto. Fino a pensare di desistere. Lui semplicemente desiderava sapere quand’è che un vino è buono. Aveva sperato in una risposta definitiva, che lo aiutasse a mettere ordine, che gli consentisse di afferrare il filo rosso e dipanare il groviglio di certezze altrui che alimentavano quel senso di sconfitta che ormai lo attanagliava.
Il contadino gli aveva versato nel bicchiere un vino che aveva la luce dell’oro, pur facendosi attraversare da una patina ambrata, da evidenti lampi ramati e confortevoli spatolate di miele. Qualcosa di antico, eppure prezioso. Pensò a quegli orologi in oro rosa, oggetti difficili, belli solo se gravidi di sfumature e di scintille. Nonostante il tempo. Quel vino il tempo lo esibiva: era vivo, con tutte le sue forze.
Fu nel momento in cui si decise ad interpretarne i profumi, che vide le anfore. Riuscì a volgere solo lo sguardo, ché il naso era già stato fatto prigioniero da una ventata tanto intensa quanto delicata: c’era qualcosa di letterario nel contrasto equilibrato tra apprezzabili spire di fumo, forse esiti di un attrito su una pietra focaia, e percettibili sbuffi di cipria, tra stille di miele e misurate note di frutta secca e candita. A quel punto guardò dentro il bicchiere e respirò a fondo una decisa aria balsamica che lo colse impreparato: fu lo scarto amaro del frutto della passione che lo intrigò in modo definitivo.
Stava ricadendo nella sua vena romantica. Molte volte aveva pensato che il vino buono dovesse somigliare a chi lo faceva, in molti lo avevano confortato in questa constatazione. C’era però anche vino cattivo, o che non gli piaceva, e certamente lui non poteva pensare di giudicare cattiva anche quella gentile persona che quel vino aveva offerto, aprendo le porte della sua casa. Eppoi l’armonia tra uomo e natura gli pareva un concetto vagamente rinascimentale, forse non adatto ai tempi. Adesso il vino che aveva nel bicchiere bussava per raccontare una storia e il vignaiolo sembrava abbastanza distaccato da tutto, tanto da riuscirgli simpatico. Stava in silenzio e non sbandierava etichette, non cercava proseliti. Eppure trattava il suo vino con grande rispetto, si sarebbe detto con affetto.
Ora le anfore stavano lì ai suoi piedi, sembrava di sentirne il respiro, sospeso nell’aria fredda e tagliente. Anche il vino aveva un attacco secco e diritto, eppure diffondeva nel palato sensazioni d’anice e mallo di noci, note torbate e tocchi accattivanti di agrumi canditi, a far da contrappunto a soffi di tannini. Gli ricordavano quei fichi bianchi, farciti di mandorle e scorze d’arancia, racchiusi e impilati tra stecche di canna palustre: era stato anche nel Cilento a cercare risposte.
Era un sorso austero, senza concessioni, un equilibrio verticale, lontano dalle consuete contrapposizioni orizzontali tra morbidezza e durezza. Tutto questo c’era, ma con una spinta verso l’alto, in una sorta di tensione gustativa, eppure asciutta e leggera: un grattacielo bellissimo, i cristalli riflessi nella luce di un tramonto. Lo spettacolo sembrava davvero affascinante, da guardare a lungo. Così come infinito era il vino, e sapido, e fresco, sfrontato e convincente nel chiedere di essere ancora bevuto. Fino al limite della bellezza.
L’uomo adesso guardava le anfore: pensava a quel contadino che un giorno aveva deciso di mettere il suo vino lì dentro. Lo immaginava una sera, tornato dalla vigna, a tavola a cena, e lì decidere di cambiare. Così, per ricominciare, per rinascere, forse per ricordare. L’uomo pensò che quel contadino doveva avere una promessa dentro di sé, un’idea di bellezza da consegnare al futuro. Lo invidiò, dal deserto della sua disillusione. E si commosse, dal profondo del cuore.
(liberamente ispirato a un passo di Cormac McCarthy)