di Roberto Curti
14 marzo 2012. Di ritorno dall’Australia, Christian Puglisi ha sulle spalle non solo un jet lag da stroncare un bue (muschiato), ma anche una stella Michelin fresca fresca, accesa nel firmamento della Rossa a poco più di un anno e mezzo dall’apertura del suo primo ristorante, a coronare l’impegnativa nella top ten dei migliori giovani cuochi europei stilata dal Wall Street Journal.
Non c’è un attimo di pausa nella cucina a vista del Relae: i sei ragazzi della brigata spadellano e assemblano senza posa. Alle 19 e 30 il ristorante è già pieno per il primo turno, e un altro seguirà di lì a un paio d’ore, ma – spiega il socio Kim Rossen, che del Relae è l’altra metà, quella alcolica, occupandosi di una carta vini ad alto contenuto di biodinamici – con la notizia della stella il telefono non ha smesso un attimo di squillare, e le richieste di prenotazioni si accavallano senza posa.
Il Relae è la dimostrazione di come possa e debba funzionare un ristorante gourmet oggi: idee semplici e chiare, attenzione al food cost e tanti saluti agli orpelli. Via tovaglie di fiandra e calici Riedel, ecco tovagliolini di carta e tavoli di legno con cassettino incorporato da dove il commensale prenderà le posate, quasi fosse a casa propria; e come al Noma, a servire saranno i cuochi stessi (che, accomodandosi al bar, si potranno vedere all’opera a pochi centimetri di distanza).
Bando alla carta, la scelta è limitata a due menu, uno di carne e pesce e l’altro vegetariano: quattro portate ciascuno, variabili a seconda del mercato, con due piatti in comune (i più golosi potranno comporre un menu globale di sei portate, sette – crepi l’avarizia – con il piatto di formaggi), a 355 corone (circa 47 euro) che qui a Copenaghen, dove la vita è cara assai, sono una cifra concorrenziale (per un confronto, il menu del Noma è prezzato a 1500 corone).
Qualcosa di simile, insomma, ai vari Chateaubriand e via dicendo: il vento gourmet soffia dalle parti della bistronomia, e già per questo la scelta di Christian si rivela vincente. Il ragazzo svela un pragmatismo che gli fa onore: «Teniamo aperto quattro sere a settimana: in questo modo mi posso permettere una brigata di cucina ed essere sempre presente in cucina io stesso; qui in Danimarca è difficile trovare personale che lavori quaranta ore alla settimana, noi ne facciamo sessanta in quattro giorni».
Il tempo è denaro, il tempo è sovrano. Ore, minuti – la suoneria del timer che marca i tempi di cottura è una presenza costante che si mescola al sottofondo musicale, tra la springsteeniana State Trooper e la Ring of Fire di Johnny Cash –, settimane, mesi, anni. Christian ha lasciato la sua Sicilia quando ne aveva solo otto, nel 1989, per seguire la famiglia su al Nord. La cucina ce l’ha nel sangue, non foss’altro che per un padre cameriere, il quale l’ha cresciuto tra comande e stoviglie. «Quand’ero piccolo, mi aggrappavo alla cucina italiana come a un patrimonio, un tesoro di cui sentirsi orgogliosi – la pasta, le melanzane, i limoni. Quella danese, non la consideravo neppure cucina. Poi, crescendo, ne ho imparato ad apprezzare le qualità, come l’utilizzo dei vegetali». L’apprendistato – Taillevent, Bulli, Noma – è di quelli che fanno pedigree: alla corte di Adrià lo stagista Christian passa solo una stagione, ma gli serve per capire l’approccio scientifico del mago di Roses, e l’importanza di crearsi un proprio stile personale. I due anni e mezzo come sous chef al laboratorio di René Redzepi, dove conosce Kim e inizia a pensare a un ristorante tutto suo, fanno il resto. «Al Noma ho passato un periodo incredibile» racconta, «ti sentivi parte di un processo creativo in continua evoluzione».
Creatività e pragmatismo: Puglisi riesce a unirli benissimo, in una cucina concreta, originale, diretta e dai gusti decisi. Se Redzepi si fa vessillifero dei prodotti della propria terra, Christian è più disincantato al riguardo: «Gli scamponi delle isole Fær Øer, il bue muschiato… sono pur sempre a due ore di distanza da qui, tante quante ne occorrono per andare in aereo a Milano. Tutto è relativo. È ovvio che utilizzerò le carote del mio orto, ma i limoni e l’olio d’oliva li faccio arrivare dalla Sicilia». Ed eccoli, i limoni, a dare un tocco di grintosa acidità al purè sovrastante il topinambur tagliato a metà, passato nel beurre noisette e grigliato che fa da goloso finger food iniziale, mentre l’olio d’oliva viene servito in accompagnamento al fragrante pane, al posto di burro e lardo come si usa a queste latitudini. I piatti che seguono sfoggiano una coerenza invidiabile: tre elementi e non di più, minimalismo di concezione e composizione per il massimo risultato gustativo.
La tartare mescola terra e mare, con l’intrusione di cozze intere tra i bocconi di carne battuta al coltello: ma a differenza dei suoi colleghi nordici, che affogano la ciccia in un oceano di sapori stordenti (capperi, senape, chips di patate croccanti e cetriolini nella tartare in carta da Aamann’s, dove si può trovare a detta di molti il miglior smørrebrod della città), Christian la lascia così com’è, con l’aggiunta di una lievissima essenza di fiori di sambuco, che aggiunge un etereo sentore vegetale. Giusto per far capire che qui si gioca anche di fioretto.
Barbabietole, “cuoio” e söl: un piatto che, a vederlo in foto, parrebbe uscito dalle cucine di via Victor Hugo: la rapa rossa forma una pellicola sottilissima, alternata a sfoglie altrettanto impalpabili di mela disidratata (il “cuoio”) e dell’alga nordica. Al di là dello squisito impatto visivo, il gioco sulle consistenze molli potrebbe far storcere la bocca ad alcuni: ma la leggerezza dell’insieme e la calibratura dei sapori sono tutt’altro che banali.
La patata Marabel è tagliata a listarelle sottili a mo’ di noodles, cotta al vapore per un paio di minuti nei recipienti dei dim sum, quindi accoppiata ad alghe e a una celestiale salsa al pecorino: eccoli qui, Oriente e Occidente, la grassezza ruffiana del formaggio e lo iodato del vegetale marino a contornare il tubero in un matrimonio che si rivela vincente già dal primo assaggio: da chiederne il bis, ancora e ancora.
Altrettanto convincente il successivo piatto vegetariano: kohlrabi tagliato in fette sottili ripiegate a metà e farcite di crescione, saltate in padella con bergamotto e nasturzio e una grattata di bucce di limone: sorta di ravioli apparenti, tanto ghiotti da far convertire il carnivoro più facinoroso.
Che comunque troverà sollievo nella guancia cotta a bassa temperatura (per tagliarla, bastano la sola imposizione delle mani o uno sguardo particolarmente truce) sormontata da carotine e polvere di finocchio.
Si chiude come s’era iniziato, col topinambur, qui in guisa di gelato racchiuso tra croccanti petali di pelle caramellata del tubero stesso e incastonato con bocconcini di pane imbevuto nell’olio di malto: un azzeccato dolce-non-dolce.
Si esce sazi ma non appesantiti, e neppure troppo alleggeriti nel portafogli: a quello penserà Redzepi – anche per lui il tempo è denaro: la maratona degustativa al Noma oltrepassa abbondantemente le tre ore – il giorno successivo. In conclusione: senza gridare al miracolo – che oggi come oggi a Puglisi farebbe più male che bene – il giovane siciliano è un talento puro dal futuro che si preannuncia luminoso, ma – al di là dei (o forse grazie anche ai) limiti che si è imposto – la sua cucina ha già una personalità spiccata e ben distante da quella degli ingombranti mentori.
E Relae è, molto semplicemente, un posto dove si mangia e si beve bene, in assoluto relax e spendendo il giusto, ascoltando ottima musica, possibilmente accanto alla (o alle) persona più cara. E in questo caso, non serve alcuna stella per rischiarare il cielo.
Jægersborggade 41, 2200 København
Tel.0045 3696 6609
Ore 17.30 – 24.00
http://restaurant-relae.dk
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